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Sciascia e l’impasto vischioso del potere in «Todo Modo»

4 minuti di lettura

Se c’è un autore che ha fatto dell’impegno morale e civile il suo marchio di fabbrica quello è Leonardo Sciascia.

LEONARDO SCIASCIA

Attraverso una coraggiosa immersione nella torbida materia della vita sociale e politica del nostro Paese, l’autore siciliano ha cercato di far luce sulle trame occulte del potere, denunciando la collusione tra Stato e Mafia, le stragi impunite, la corruzione e l’allentarsi dei vincoli della società civile.

Mosso da una volontà ostinata di cercare la verità, Sciascia conduce una battaglia intellettualmente impegnata scrivendo pamphlet e articoli di denuncia, opere dedicate a misteriosi casi di cronaca, romanzi capaci di cogliere con straordinaria acutezza il groviglio inquietante di una certa realtà italiana.

Il lucido rigore razionale della sua indagine si riflette nello stile essenziale, concreto e scevro da ogni sbavatura sentimentale o retorica e che al tempo stesso lo porta a tratteggiare personaggi memorabili, portatori dei valori di giustizia e razionalità (primo tra tutti il capitano Bellodi de Il giorno della civetta).

Adottando spesso la struttura del “giallo”, l’autore dà vita ad opere vigorose e dalla straordinaria corrosività sarcastica, capaci di indagare a fondo le trame oscure di un potere marcio fino al midollo.

Proprio la diagnosi assolutamente impietosa del sistema politico italiano e dei rapporti che questo intesse è al centro di Todo Modo, un romanzo quasi profetico, dai contorni realistici ed inquietanti.

todo modo copertina Sciascia

Per ammissione dello stesso Sciascia, l’opera fu scritta in polemica con la Chiesa Cattolica, caratterizzata da bieco arrivismo e incredibilmente cieca dinnanzi al discutibile rigore morale dei laici cattolici cui era affidata la guida del nostro Paese.

Con la scusa di trascorrere qualche giorno praticando esercizi spirituali (quelli che il gesuita Ignazio di Loyola prescriveva todo modo, «al fine di trovare la volontà divina»), uomini dei poteri forti si ritrovano all’eremo di Zafer, una costruzione di cemento armato orrendamente collocata in un luogo delizioso e ameno. Qui, per caso o per inscoscia attrazione, converge un giovane e stimato pittore, anticlericalista convinto e testimone d’eccezione di quel rituale di ipocrita purificazione.

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Tra i protagonisti di questo bizzarro balletto (così lo chiama a ragione il pittore, cogliendo l’incredibile farsa che ne è alla base) spicca la figura di don Gaetano, uomo coltissimo di cui nessuno sa scorgere il fondo e il cui carisma indiscutibile è in grado di tenere sotto scacco anche le menti più lucide.

L’artista, io narrante, ne è ambiguamente attratto, ritrovandosi quasi spiazzato dinnanzi ad una cultura sconfinata, non pedante e assolutamente lontana da vincoli moralistici.

Sotto l’imperio di questo prete, che non fa mistero di paragonare la Chiesa del tempo alla Zattera della medusa di Théodore Géricault, che ammira estasiato un quadro in cui il diavolo porta gli occhiali a pince nez esattamente come lui, si trovano a convivere notai, ministri, avvocati e giornalisti, la cremè della cremè della Democrazia Cristiana travagliata da lotte intestine e sete di potere. Tutto procede secondo le previsioni, finchè una sera, durante la bizzarra recita del rosario nel piazzale dell’eremo, un colpo di pistola secco e deciso uccide l’onorevole Michelozzi dando il via al giallo; si susseguono una serie di eventi, omicidi e indagini inconcludenti che altro non sono che il pretesto per una valutazione pessimistica su un cattolicesimo ormai ostaggio di uomini avidi e dall’imperante cinismo.

Tra un Don Gaetano perfettamente conscio del vuoto politico che caratterizza il Paese («Ma signori, spero non mi darete il dolore di dirmi che lo Stato c’è ancora…») e una pletora di viziosi e meschini uomini d’”onore”, il pittore protagonista può realmente toccare con mano quell’intreccio perverso tra politica, gerarchia ecclesiastica e potentati economici che Sciascia porta magistralmente in scena e che il lettore, per riflesso, comprende con un misto di amarezza e delusione.

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A completare il quadro di degrado e mediocrità ci pensano i tutori della legge, coloro che dovrebbero risolvere il caso mentre non fanno altro che brancolare nel buio: il procuratore Scalambri, primo della classe fin dai tempi della scuola ma del tutto incapace a condurre un’indagine, il commissario prossimo alla pensione e una serie di poliziotti più interessati al cambio turno che a sorvegliare gli ingressi dell’eremo.

Quando anche il carismatico gesuita viene trovato morto, ucciso da un colpo di pistola, il nulla in cui si stava navigando si palesa, l’intricato bandolo della matassa viene definitivamente perduto e la mediocrità del procuratore dichiara lo sgombero dell’albergo.

Non è un caso che Sciascia decida di lasciare aperto e vago il finale, perché non importa trovare il nome dell’assassino quando la verità è sotto gli occhi di tutti: ci si uccide e a vicenda, in una società in cui tutti sono colpevoli, dove chi si erge a paladino della moralità risulta essere il più contaminato dall’arrivismo e dall’arroganza.

Fondi sottratti allo Stato, favori al collega di partito, corruzione e ruberie hanno legato tra loro i presenti in una ragnatela torbida che il pigro commissario, nella sua pochezza, individua tuttavia con precisione: «Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare classe dirigente. E che cosa dirigeva, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di filo d’oro».

Nessuno ne esce pulito, neanche l’artista narrante che pure disegna un meraviglioso Cristo in ombra, simbolo di un (mancato) ritorno all’umiltà della Chiesa del passato.

La commistione profonda tra cattolicesimo e potere c’è, è sotto gli occhi del mondo e non è un caso che nel libro si citi più di una volta Paolo VI, il Papa allora in carica, tipico esempio di ingerenza della Chiesa nella vita politica.

La grandezza dell’analisi di Sciascia sta proprio in questo rimando di citazioni e di allegorie, come traspare fin dal titolo in cui Todo Modo allude contemporaneamente al motto di Ignazio di Loyola e all’espressione letterale «con ogni mezzo», chiara allusione alla degradazione dei costumi politici e morali.

E allora non c’è spazio per un finale da romanzo “giallo”, in cui ogni dubbio viene sciolto e ciascun punto interrogativo ha una risposta.
Nel gioco del potere reale, come nel delitto, «non ci si può fermare».

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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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