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«Saturno che divora i suoi figli» di Francisco Goya: l’estetica della violenza

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Spesso la vita degli artisti dalla sensibilità cupa e introversa, dall’intelligenza così singolare da essere accusati di sfacciataggine, inizia solo con la morte. Si pensi a Vincent Van Gogh, ad esempio. Al contrario, Francisco Goya (1746 – 1828) ha conosciuto la fama nel fiore dei suoi anni e proprio la gloria lo ha gettato nel pozzo della follia, da lui sempre contemplato/ammirato.

Negli anni ’80 del Settecento, Goya è un affermato pittore di corte, ma – in parallelo col declino dei rivoluzionari ideali illuministi – passano pochi anni e il suo rapporto con i governanti si corrompe. Per convenzione, potremmo astrarre a punti di culmine e di rottura i due ritratti I duchi di Osuna con i figli (1788) e La famiglia di Carlo IV (1801). Fra il tratteggio delicato dei duchi che lo hanno introdotto a corte e la rappresentazione della famiglia reale lontana da ogni abbellimento neoclassico, ci sono la perdita totale dell’udito nel 1794 e, soprattutto, la famosa acquaforte Il sonno della ragione produce mostri (1797) e La maja desnuda (1800). Nel primo, dietro un uomo addormentato nascono creature sinistre e inquietanti; nel secondo, il nudo di una popolana (nella bigotta Spagna di inizio Ottocento) acquista dignità artistica per la sua “sola” carica erotica. Queste opere, chiaramente ispirate a loro volta da passi precedenti, guidano le mani di Goya verso le pareti della Quinta del Sordo, riempite dei mostri che l’artista ha covato negli anni: così il pittore soprannomina la casa di campagna presso cui si isola, nella sua totale sordità, dal 1819 al 1823 (anni della Restaurazione borbonica a Madrid). Qui 14 oli su muro fanno deflagrare la psiche del pittore e la rigettano sulle pareti, consegnandoci non l’ultimo testamento di Goya, ma l’identità della sua vita.

saturno che divora i suoi figli goya

Saturno che divora i suoi figli è disposta nella sala da pranzo, e ripropone un mito greco: Saturno (Crono per i greci) fagocita i suoi figli nel momento della nascita, poiché gli è stato profetizzato che uno di loro lo avrebbe scalzato. Dunque, a costo di massacrare dei neonati, il dio dei cicli naturali custodisce avidamente il suo potente trono. Nel 1636 la stessa scena è stata dipinta da Pieter Paul Rubens, tuttavia con differenze sostanziali. Innanzitutto, il tono generale del quadro è più contenuto, essendo cioè privo di quei tratti pesanti che riempiono il corpo del Saturno di Goya: l’aria barocca suggestionata da Rubens, nonostante la scena cruda, è elegante in confronto alla pittura nera dello spagnolo. In secondo luogo, muta l’aspetto della vittima, che è nel primo caso quello di un bambino indifeso, riconoscibile nel suo viso straziato; mentre nel secondo la vittima è già priva di un braccio e della testa, inanimata, irriconoscibile nel suo corpo disumanizzato. Infine, il pittore fiammingo lascia trasparire una certa emotività e una partecipazione al dramma infanticida: Francisco Goya no, ritrae la follia brutalmente, percepisce in se stesso l’impulso primitivo di Saturno. Poche sfumature, sfondo rigorosamente nero, e poca luce, che serve unicamente ad accrescere il volume del corpo dell’assassino. Gli occhi strabuzzano, e mentre il padre uccide il figlio, si alza il sopracciglio sinistro per la paura che prova lo stesso carnefice. Questo capolavoro della violenza preannuncia, coi suoi toni dalla forza primitiva, il fallimento dell’uomo in età contemporanea – avvertito maturamente, non a caso, dalla correnti artistica dell’Espressionismo.

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Sono state proposte più interpretazioni per il quadro: metafora del tempo che porta tutto via? del tiranno che domina il popolo? o forse è l’incombenza della morte sulla vita? Chiaramente nessuna di queste ipotesi è esatta e nessuna è sbagliata. Saturno che divora i suoi figli divora anche qualsiasi idealismo, lasciando ogni dubbio al contrasto fra il nero del corpo e il rosso del sangue.

Andrea Piasentini

 


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