Non ti credo
ma c’è chi giura che esisti,
forse non ti so cercare
o rassegnarmi a cadere
e tu giochi a nasconderti,
non ti fai trovare,
sembriamo due strani innamorati
ma io ti sento
qui alle mie spalle,
a volte mi sento toccare.(Quad. XIX, 12)
Questa una delle poesie più toccanti e sature di significato di Salvatore Toma, classe 1951, scomparso nell’87, dopo una fervida attività poetica. Nasce a Maglie, in provincia di Lecce, in una famiglia di fiorai. Frequenta il liceo classico, non prosegue gli studi, ma continua a studiare intensamente i poeti che ama. Vissuto nel Salento, a stretto contatto con la natura, che vede come fuga dalla società circostante, è una delle voci più significative della letteratura italiana della seconda metà del ‘900 e, ciononostante, ancora poco conosciuta.
Toma ha una visione totalizzante della scrittura, che scava fino al midollo e sa essere sfogo, conforto, verità, speranza o disillusione. Ecco perché sarebbe giusto dare maggiore visibilità e prestigio anche alle figure poco in auge, forse sommesse, ma ricche nelle tematiche, nell’uso dello stile, nel linguaggio, nei messaggi.
Un presagio di morte
Nel Canzoniere della morte, pubblicato postumo nel 1999, a cura di Maria Corti, ci si trova costantemente in uno stato di allerta, rigidità, di fronte a un sentimento universale, il dolore, che sembra non avere altro scampo se non quello di porvi fine assoluta. La raccolta si divide in tre sezioni, che pongono l’accento sui temi più cari a questa personalità così tormentata: la natura, la morte e il sogno. La natura e il sogno fungono entrambi da vie d’uscita, occasioni di redenzione, utopiche consolazioni, immagini sporadiche. La morte, viceversa, aleggia perenne e giunge per Toma a soli trentacinque anni; le ipotesi vertono sul suicidio, anche se esiste una buona probabilità che si sia trattato di cirrosi epatica, data da abuso di alcol.
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Salvatore Toma: l’ultimo poeta maledetto
Quella di Toma è una vie maudite, che richiama la descrizione che Paul Verlaine fece nell’Avant-propos:
Avremmo dovuto dire Poeti Assoluti per restare nella calma, ma oltre al fatto che la calma poco si addice di questi tempi, il nostro titolo ha questo, che risponde in modo adeguato al nostro odio e, ne siamo sicuri, a quello dei sopravvissuti tra gli Onnipotenti in questione, per la volgarità dei lettori elitari – una rude falange che ben ce lo rende. Assoluti per l’immaginazione, assoluti nell’espressione, assoluti come i Rey-Netos dei migliori secoli. Ma maledetti! Giudicate.
Numerose sono le affinità che accomunano Toma ai poeti maledetti poiché, così come questi ultimi, l’autore salentino si lascia sopraffare dalla mancanza di senso dell’esistenza, dall’inutilità del tutto, dal desiderio di non-essere. L’artista si auto-annienta per rifiutare, con forza, i (dis)valori di una società da cui non si sente compreso. Sceglie una vita diversa, isolata, si rifugia nell’alcol. Impulso distruttivo e attrazione verso la morte.
Un barlume di speranza
Versi brevi, forti, intensi. Diretti fino a far male. Poesie che scavano nel profondo e portano a un senso di solitudine, una solitudine condivisa, dal momento che il lettore ne resta folgorato: lui stesso può specchiarsi e riconoscersi in tutte le descrizioni, ritratte abilmente da Toma nelle pagine dei suoi testi, con uno stile unico, attraverso il quale diventa un poeta facilmente riconoscibile, data l’impronta forte e sui generis. Il tema della fine eterna pervade di malinconia e di rassegnazione; tale sembra l’andatura dei testi fino a che non ci si imbatte anche in versi che trasmettono un flebile sussurro di speranza:
Apri le braccia stirati
spacca tutto emergi
perché tu sei vivo
tu sei vivo non farti sopraffare
hai diritto a sbagliare: sei libero
non aver paura
la vita è breve e così poco seria
per cui apriti spacca tutto: dimostrati
perché tu sei importante!22.4.1981
Perché tu sei vivo, ecco che la vita sembra acquisire significato e vigore, eterea chimera di contro a uno sconforto permanente che solo gli uomini di spiccata intelligenza sentono, perenne, gravare su di sé. D’altra parte, «non si può essere profondamente sensibili in questo mondo senza essere molto spesso tristi», così affermava Erich Fromm. Nulla di più attinente al nostro poeta salentino, le cui opere dovrebbero essere lette, amate, quasi in modo viscerale. Come era lui.
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Riscattiamo, noi lettori, una voce fuori dal coro, penetrante, in costante tensione, solitaria e universale allo stesso tempo. Leggiamo la poesia, quella vera, quella capace di far vagare la mente oltre le cose, di farci capire il mondo e la difficoltà dell’esistenza. Solo così riusciamo ad arrivare fino ai meandri più reconditi del pensiero e della coscienza umani; in questo modo, impariamo a essere liberi e innaffiamo il seme del dubbio, attraverso cui crescere, progredire, migliorare, accettarci nella nostra finitezza.
Giusi Chiofalo
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