Come l’incompiuta Hérodiade di Mallarmé e la censurata Salomè di Oscar Wilde, la Salomè di Gustave Moreau (Parigi, 6 aprile 1826 – Parigi, 18 aprile 1898) è parte integrante di un vilipendio biblico, di un processo di dissacrazione morale atto al sacrificio dell’etica nella celebrazione assoluta dell’estetica. Unico dipinto capace di emozionare l’impassibile Des Esseintes di Huysmans (À Rebours, 1884), Salomè appare in numerose rappresentazioni di Erodiade ad opera di Moreau, che la scelse come soggetto di un ciclo pittorico.
Le danze del ciclo si aprono con Salomè tatuata (Salomé tatouée, 1874 – Musée Gustave Moreau, Parigi), tela dalle tinte accese, brillanti, dove troneggia il morbido corpo nudo di Salomè. Coperta solo da esotici tatuaggi e impalpabili veli, la figura femminile offusca completamente quella maschile di Erode, emarginato in uno sfondo oscuro così come la sua volontà retrocede di fronte alla voluttà e al desiderio. Caratteristiche di questo quadro (e di quelli successivi) sono la ricchezza e vivacità dei dettagli, nonché l’atmosfera orientaleggiante e mistica in cui si onora un’unica divinità: la bellezza. Proprio da questo principio traggono fondamento e nutrimento tutte le successive e contemporanee rappresentazioni di Salomè, non soltanto a livello pittorico ma anche letterario, teatrale e musicale: essa non è più soltanto l’artefice della morte del Battista, non è l’eretica meretrice nemica della cristianità, ma è la divinità di una potenza superiore che irretisce, confonde e inibisce la razionalità umana a scapito di una più naturale istintività.
Nella seconda rappresentazione, Salomè danza di fronte a Erode (Salomè dansant devant Hérode, 1876 – The Armand Hammer Museum of Art and Collection, Los Angeles), la giovane è colta durante la danza dei sette veli, antica pratica di origine babilonese secondo cui la dea Ishtar (divinità dell’amore e delle fertilità) ballava coperta solo da sette veli dei colori dell’iride (corrispondenti ai sette chakra nonché ai sette pianeti) liberandosi man mano di ognuno fino a raggiungere la purezza della nudità. Sebbene tale danza fosse di natura sacra, con il mito di Erodiade assume una valenza prettamente sensuale, in cui il lento spogliarsi accresce il desiderio e la passione. A differenza del dipinto precedente, Erode compare qui al centro del dipinto, sempre in secondo piano rispetto a Salomè, ma chiaramente visibile nella fissità dell’eccitazione. Esemplare è sempre il gesto della fanciulla che rivolge un braccio in alto verso il sovrano. Questo particolare, presente anche in Salomè tatuata e ne L’apparizione, è fondamentale per chiarire la posizione di comando assunta dalla giovane: anche se in presenza di un re, essa è consapevole del proprio potere, della propria superiorità che non teme confronti, e dunque si rivolge ad Erode come una regina ad un proprio suddito, come una dea ad un proprio sacerdote.
Il suo è un gesto di comando, un ordine, e assumerà una valenza ancor più significativa nella terza opera del ciclo, L’apparizione (L’apparition, 1876 – Musée Gustave Moreau, Parigi) dove a Erode si sostituisce appunto l’apparizione della testa del Battista. Sebbene in questo dipinto il gesto di Salomè possa essere interpretato come una manifestazione di paura, di soggezione, tale pensiero non sarebbe conforme allo stereotipo decadente scrupolosamente seguito da Moreau. È dunque un gesto di sfida, l’esaltazione nel perseguimento del proprio obiettivo, nonché della vittoria di ciò che è bello su ciò che è giusto.
Con Salomè in Prigione (Salomè en prison, 1876 – National Museum of Western Art, Tokyo) la scena cambia: essa infatti ha come sfondo non più la sala del trono, ma le prigioni del palazzo dove una regale Salomè, riccamente vestita di preziosi tessuti e adorna di splendidi gioielli, con compiacimento si sofferma di fronte alle catene del Battista, ormai private del loro prigioniero. Dal valore simbolico unico e inestimabile, questo dipinto raffigura per la prima volta un episodio nuovo, mai affrontato prima, ovvero il momento che sigilla l’arrivo della quiete dopo la tempesta, la fine del trambusto causato dalla battaglia, quando il condottiero vittorioso si gode i frutti del suo massacro. Essa non ha ancora ricevuto la testa del nemico, ma le catene insanguinate, così come il misero panno sporco sul pavimento, suggeriscono che il Battista non è più, così come la stessa cristianità ha raggiunto il patibolo. Qui Salomè è l’artista decadente che assapora il regredire della religione, è Moreau, Huysmans, Wilde, che assistono al trionfo assoluto dell’arte.
Salomè nel giardino (Salomè au jardin, 1878 – Mohamed Mahmoud Khalil Museum, Il Cairo), presenta infine una nuova ambientazione, ovvero un verdeggiante giardino, dove ancora una volta troviamo la bella Erodiade, questa volta avvolta in drappi cobalto ricamati d’oro, con la chioma bruna sciolta sulla schiena, e le braccia strette intorno al celebre vassoio d’argento recante la testa di Giovanni Battista. Il ciclo dunque si conclude sull’atto della contemplazione, mentre la giovane si gode il premio tanto agognato e ai suoi piedi giace un corpo esangue, probabilmente quello del Battista stesso (o, secondo altre interpretazioni, quello di Erode ormai completamente e disperatamente soggiogato).
Unico nel suo genere, il ciclo di Moreau riscrive un episodio biblico secondo canoni etici completamente nuovi e sconvolgenti, giustificando i crimini più aberranti se motivati da ragioni estetiche. Se la morale ha dei limiti, l’estetica non ne ha, non ne impone, ma offre invece una libertà selvaggia e primordiale dove l’uomo è libero di seguire qualsiasi pulsione, pur di soddisfare i suoi bisogni, pur di inseguire il puro piacere, e se anche questi principi sembrino sradicare i valori più antichi e più sacri dell’umanità, essi pongono in realtà le basi per la nascita e lo sviluppo dell’uomo moderno, schiavo e suddito di un’eterna e meravigliosa Salomè.