Ho visto per la prima volta questa foto in una galleria d’arte più di 20 anni fa. Non avevo idea dell’autore, chiunque fosse doveva essere sia un grande fotografo che un amante dell’avventura, pensai. C’era un timbro sul retro e una firma: Sebastião Salgado. Comprai la foto e il gallerista tirò fuori dal cassetto altre foto dello stesso fotografo. Quello che vidi mi colpì profondamente, specialmente il ritratto di una donna tuareg cieca…
Una cosa l’avevo già capita di questo Sebastião Salgado: gli importava davvero degli esseri umani. Questo significava molto per me… dopo tutto gli esseri umani sono il sale della terra.
Wim Wenders.
La Sierra Pelada, la miniera d’oro brasiliana, davanti a me. Arrivando sul ciglio di questo immenso buco, mi è venuta la pelle d’oca. Non avevo mai visto una situazione del genere. Mi si è mostrata davanti, in poche frazioni di secondo, la storia dell’umanità: la costruzione delle piramidi, la Torre di Babele, le miniere di Re Salomone. Non si sentiva il suono di una sola macchina là dentro. Si sentiva solo il mormorio di 50mila persone in un enorme buco. Le conversazioni, i rumori, le voci umane mischiati ai suoni del lavoro manuale. Sono davvero tornato all’alba dei tempi. Percepivo il mormorio dell’oro nell’anima… di tutta quella gente che insieme costituiva un mondo superorganizzato, ma nella follia più totale. Si aveva l’impressione che fossero schiavi, ma non c’era un solo schiavo. Se c’era una schiavitù lì, era del desiderio di arricchirsi… Tutti quelli che cominciano a toccare l’oro, non tornano indietro.
Con queste parole, e le impressionanti immagini surreali della Sierra Pelada, comincia il film Il sale della terra, il documentario di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado sulla vita e le opere del fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Le sue vicende personali, alternate alle sue riflessioni sul mestiere del fotografo, danno un quadro di questo artista che ha dedicato la sua vita a esplorare il mondo, concentrandosi sulle meraviglie della natura e sull’irragionevolezza dell’uomo che tanti orrori ha creato.
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Dalla più grande miniera a cielo aperto ai genocidi africani, fino ai pozzi petroliferi incendiati in Medio Oriente, ha immortalato gli esodi e la tortura delle guerre e delle nuove schiavitù, ha raccontato “gli ultimi” con la sua visione in bianco e nero, con quella scala di grigi che diventa scala di disperazione, con l’assenza di colori che distraggono, con la presenza di chiaroscuri che sono un pugno negli occhi e nello stomaco. La sua fotografia non è una forma d’arte fine a se stessa ma diventa un mezzo per informare ed emozionare, è una vocazione a cui si offre spinto dall’empatia verso la condizione umana.
Il film, oltre a mostrare le splendide e toccanti immagini di Salgado, scattate in tutta una vita, racconta il fotografo “sul campo”. Wenders e il figlio maggiore di Salgado, Juliano, hanno accompagnato l’artista in alcuni dei suoi viaggi più recenti, documentando il suo lavoro e l’umanità con cui si approccia alle diverse culture in ogni parte del mondo.
Il primo grande progetto fotografico di Salgado fu Other Americas, che lo vide viaggiare dal 1977 al 1984 sulle Ande e negli stati sudamericani Ecuador, Perù, Bolivia.
Forse non ho mai incontrato in vita mia un popolo che avesse lo stesso ritmo del tempo. Il periodo che ho passato coi Saraguros, ho avuto l’impressione che fosse durato un centinaio di anni, talmente tutto era lento, era un altro modo di pensare, un’altra velocità. C’era un fatalismo, sui loro visi.
Poi fu la volta del Sahel, dell’Etiopia, del progetto Workers, la mano dell’uomo, che lo vide dedicarsi ai mestieri più disparati in ogni parte del mondo, il Kuwait, Exodus, gli esodi e le barbarie delle guerre, in Yugoslavia come in Ruanda, che lasciarono in Salgado un segno indelebile e lo portarono a prendersi una pausa dalla fotografia.
Era solo questo bambino, col suo strumento, una piccola chitarra in mano, con quel che rimaneva di una maglietta ancora indosso, niente pantaloni, niente. Guarda la sua determinazione, la sua postura: era uno che sapeva dove andava, alla ricerca di altri gruppi, di un villaggio. Con il suo cane, un bambino che aveva 8-9 anni.
Siamo animali molto feroci, siamo animali terribili noi umani. Sia qui in Europa che in Africa che in America Latina, dappertutto. Siamo di una violenza estrema. La nostra è una storia di guerre, una storia senza fine, una storia di repressione. Una storia folle.
Sarà nel 2004, dopo un ritorno alle origini in Brasile, che Sebastião Salgado riprenderà con rinnovata passione la sua arte, lavorando al progetto Genesi, spostando l’attenzione dai temi socialmente impegnati alla natura incontaminata del pianeta, iniziando dalle Galapagos.
Era il mio primo reportage sulla natura, la prima volta che ho fotografato altri animali. Per 8 anni ho osservato, e ho capito che io sono parte della natura come una tartaruga, un albero, un sassolino.
Il sale della terra non è “solo Salgado“, la sua opera, la sua passione per la fotografia, la sua “missione”. È anche un viaggio di un padre e di un figlio, un figlio che, per i primi anni della propria vita, è cresciuto con un padre assente, e che, ogni volta che tornava, gli appariva come una sorta di super-eroe, più che un fotografo.
Trent’anni dopo, finalmente ho seguito mio padre in una delle sue missioni, in un’isola deserta nell’Oceano Artico. Sebastião sperava di fotografare l’ultima grande comunità di leoni marini. Io volevo capire chi era quell’uomo. L’uomo che conoscevo solo come “mio padre”. Volevo scoprire il fotografo, l’avventuriero, per la prima volta….
Juliano Ribeiro Salgado.
Il sale della terra, tra i vari riconoscimenti, ha vinto il Premio Speciale nella categoria “Un certain regard” al Festival di Cannes 2014 e il Premio del Pubblico al Festival di San Sebastián in Spagna dello stesso anno. Nel 2015 ha conseguito la nomination agli Oscar come miglior documentario.
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[…] “IL SALE DELLA TERRA”, IL FILM DOCUMENTARIO SUL FOTOGRAFO SEBASTIÃO SALGADO […]