Come considerare la Russia di ieri e di oggi? Non sempre è facile dare agli eventi il giusto peso, il giusto livello di attenzione. A volte si sovrastimano, altre volte invece è difficile cogliere i germogli di qualcosa di grande che accadrà, o che ci segnalano qualcosa di già accaduto e che è solo di là da venire. Stabilire, insomma, se quello che stiamo vivendo altro non è che “polvere sugli stivali della storia”, oppure se si tratta di qualcosa che la storia la fa è compito arduo.
I primi, infatti, che spesso si rifiutano di etichettare un evento con giudizi affrettati sono proprio gli storici, gli accademici. Per loro è naturale non farsi raggiungere dalla frenesia che, a primo impatto, contagia tutti. Devono essere freddi, distaccati. Sanno che la fretta è, di norma, cattiva consigliera e che le carte in tavola devono esserci tutte prima di abbozzare un giudizio. I commentatori, le tv, i media e, persino la grandissima maggioranza dei giornalisti, fanno un altro lavoro, rispondono ad altre dinamiche e spesso si lasciano andare a giudizi netti, molte volte sbagliando, altre invece riconoscendo il fatto che quel preciso avvenimento segnerà il passare degli anni, costituirà una cesura, chiuderà un’epoca e ne aprirà un’altra. Colgono il fatto che, insomma, molto non sarà più come prima.
A volte gli storici, gli analisti politici e geopolitici e i comuni commentatori, però, si trovano di fronte a qualcosa di così grande che tutti ne riconoscono subito la portata. Fu quello che successe, ad esempio, il 9 novembre 1989, oppure, ancora più plasticamente, il giorno di Santo Stefano del 1991.
I trent’anni della Russia post-sovietica
Quel giorno, quando la bandiera sovietica sventolò per l’ultima volta sulla Piazza Rossa, finì senza ombra di dubbio una parte importantissima della storia contemporanea. Per la prima volta, dal 1547 (escluso un breve lasso di tempo che va dal trattato di Brest Litvosk fino alla Seconda guerra mondiale), ovvero da quando lo Zar Ivan IV, conosciuto ai più come Ivan il Terribile, si proclamò Zar di tutte le Russie e tentò di raccogliere l’eredità dell’Impero romano d’Occidente. La Russia tornò ad essere uno Stato e non il fulcro di un impero.
Discutere delle cause del crollo dell’Unione Sovietica ha impegnato, e impegna tutt’ora, analisti e addetti ai lavori occidentali, russi e cinesi, con gli ultimi in particolare che vi hanno dedicato rilevante attenzione. L’incubo cinese è di fare la fine dell’URSS. Recentemente, però, si stanno facendo largo altre domande, non più rivolte al passato ma al presente e al futuro della Russia: è giusto considerarla come l’erede diretta dell’impero che fu? Ne possiede le capacità? Come valutarne la politica estera?
Leggi anche:
Cosa sta succedendo alle minoranze in Cina
Tutti questi interrogativi, e molti altri a dire il vero, assillano le cancellerie occidentali in modo costante e i riflessi di quest’ansia sono ben visibili negli approcci sparsi che queste hanno con il gigante euroasiatico. Da un punto di vista storico, la Federazione Russa ha vissuto nei trent’anni che sono passati dalla sua nascita, almeno tre o quattro periodi molto diversi tra loro.
La Russia di El’cin e quella di Putin
In un primo momento, durante la presidenza di Boris Nikolaevič El’cin, il paese versava in condizioni critiche. Dal punto di vista economico, l’economia russa subì un tracollo verticale, la crisi che seguì la dissoluzione dell’Unione Sovietica lasciò il segno sulla popolazione e l’inettitudine del presidente, nell’ultimo periodo a volte visibilmente intaccato dall’alcool, non contribuì a migliorare la situazione. El’cin aveva vinto la lotta intestina con Gorbaciov, ma non fu in grado di risollevare il paese.
Una seconda fase si aprì tra il 1999 ed il nuovo millennio, quando un giovane Putin, per la prima volta, diventò presidente del paese. Sfruttando i prezzi dei combustibili fossili alle stelle, Putin iniziò a riformare il sistema economico e fiscale, inaugurando un periodo di moderata ma costante crescita economica. In politica estera le ambizioni del neo-presidente molto probabilmente eccedevano le reali capacità di proiezione del paese, e ciò costrinse la nuova leadership a mostrarsi dialogante e relativamente aperta. Questo approccio moderato terminò, però, a seguito di due ragioni: da una parte la Russia manteneva comunque un potenziale militare soverchiante rispetto a quello dei suoi vicini e una mentalità di fondo che restava quella di una grande potenza. Mutilata sì, ma lontana dal tramonto definitivo. In secondo luogo, fatto che è in parte connesso, l’espansione ad est della NATO, che nel 2004 accolse Estonia, Lettonia e Lituania oltre a Romania e Bulgaria, oltrepassò un limite che per i russi era segnato in rosso. Si trattava di un affronto da parte occidentale, soprattutto riguardo le tre repubbliche baltiche.
Non fu un approccio dissimile da quello che sta accadendo ora in Ucraina; Mosca però al tempo non aveva fisicamente i mezzi per opporvisi. Un segnale di cambiamento arrivò con l’invasione della Georgia nel 2008, quando truppe russe violarono il confine con l’ex repubblica sovietica per assicurarsi il controllo di alcuni territori separatisti.
Il vero cambio di rotta, con una rinnovata capacità di proiettarsi sul piano internazionale, fu chiaro a tutti a partire dalla crisi siriana nel 2011, evento che resta uno dei maggiori successi esteri di Putin da quando è presidente. Accanto a episodi di indubbio successo però si sono registrate anche occasioni in cui Mosca non è stata in grado di garantirsi la fedeltà di pezzi fondamentali e storici dell’Unione Sovietica, che ora gravitano in orbita occidentale, come l’Ucraina che almeno, e non casualmente dal 2004 anch’essa, ha spostato il proprio orizzonte politico verso l’occidente, sotto forte spinta statunitense. Non è un caso, in questo senso, la dichiarazione dell’allora presidente Obama che derubricò la Russia a “potenza regionale”.
La questione Ucraina
Più in generale la Federazione, a dispetto di come viene dipinta da molti media occidentali, si trova sulla difensiva, non essendosi dimostrata in grado di fronteggiare né l’allargamento ad est della NATO, né le crisi che hanno interessato paesi come l’Ucraina, che nei fatti la Russia ha perso. Per quanto ora infatti minacci, ammassando truppe e attraverso proclami, di riprendere il controllo delle regioni filorusse del Donbass, è molto difficile che si possa davvero tornare a una situazione iniziale di status quo che possa realmente soddisfare le preoccupazioni di sicurezza russe. È molto probabile invece che si arrivi a un compromesso.
Leggi anche:
L’illusione europea di poter restare in mezzo al guado
Nonostante dai recenti colloqui avvenuti tra UE, Russia e NATO siano inizialmente filtrate posizioni dure, le recenti dichiarazioni di Joe Biden sulla distinzione tra una limitata incursione e una vera e propria invasione, alle quali seguirebbero reazioni di differente intensità, lasciano trasparire che nessuno in occidente, USA in primis, sono pronti a impegnarsi in una guerra vera e propria. La probabilità che ai russi vengano lasciate le regioni contese senza che l’Occidente si impegni davvero a difenderle sembrerebbe ora una delle opzioni maggiormente probabili. Si tratterebbe comunque, in ogni caso e guardando alla situazione di solo una decina di anni fa, di una vittoria di facciata che il presidente russo potrebbe usare più a fini elettorali che strategici.
I conflitti recentemente esplosi nel Nagorno Karabakh ed in Kazakhstan sono anch’essi emblematici del fatto che la Russia non sia che l’ombra di ciò che è stata. Dal punto di vista militare, trent’anni fa Mosca disponeva di truppe nel cuore dell’Europa, controllava Berlino e praticamente tutte le capitali dell’est, possedeva una profondità strategica, derivante dai quindici stati-cuscinetto che componevano l’URSS, che oggi non ha più, e in alcuni casi, come accennato sopra, fatica addirittura a mantenere stabili questi paesi.
La Cina, con la quale condivide migliaia di chilometri di frontiera terrestre, ha sviluppato un potere latente superiore a quello russo, costringendo i due paesi a cooperare in molti paesi che Mosca ha sempre considerato di propria esclusiva pertinenza. Altra nota dolente viene dalla demografia, con una popolazione dimezzata rispetto all’era sovietica e che tende a invecchiare. Questa è poi distribuita in modo estremamente ineguale sull’enorme territorio, con il 75% dei circa 140 milioni di cittadini che vivono nella Russia europea, lasciando così la parte asiatica oltre la catena degli Urali fortemente sottopopolata e vulnerabile.
I punti di forza russi
Ciò detto, sarebbe evidentemente un errore sottovalutare oltremodo ciò che la Russia è e non cesserà di essere. La capacità di travalicare i confini nazionali, e imporre se stessa al di fuori di essi, non è il risultato di un’asettica somma di capacità economiche o militari.
Una risorsa sulla quale il paese può fare affidamento è la percezione che i russi hanno di sé, ovvero di rappresentare una grande potenza che, tolta una breve parentesi sfortunata (molti infatti credono che il declino sovietico sia dovuto a particolarismi dei suoi leaders) è sempre stata cruciale nel determinare i destini delle comunità confinanti e dell’intero continente europeo.
Un’altra risorsa sulla quale il paese può contare è rappresentata dai milioni di cittadini russi che, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, si sono improvvisamente trovati stranieri dove prima erano a casa. Molti di loro non sono rientrati nella madre patria, con il governo indeciso tra il forzare la mano ed incentivare il contro-esodo per riequilibrare la questione demografica o sfruttare l’opportunità di mantenere una sorta di quinta colonna all’estero. Per fare un esempio, in Kazakhstan, teatro delle violente proteste di questi giorni, circa un quinto della popolazione è costituita da russi, con un’altra fetta che ha il russo come prima lingua. Non è un caso che il Cremlino abbia agito in modo estremamente risoluto per difendere i propri interessi.
Altri elementi che non possono non giocare a favore della Russia sono la dipendenza europea dagli idrocarburi e dal gas siberiani, elemento che Putin ha saputo sapientemente usare in chiave negoziale con l’Occidente europeo, la presenza di industrie all’avanguardia in settori chiave come quello spaziale e in alcuni ambiti della ricerca scientifica, la disponibilità di enormi giacimenti di terre rare e una macchina bellica seconda, per mezzi e soprattutto attitudine alla violenza, solo a quella statunitense.
Leggi anche:
La crisi energetica è anche geopolitica
L’impero insomma non esiste più, ma non è un caso che il leader più apprezzato dalla popolazione sia quello Stalin che prese in mano una nazione rurale e retrograda e la portò a competere e a confrontarsi, circa un decennio dopo la sua morte, quasi ad armi pari in molti ambiti con gli Stati Uniti. Quel livello di benessere, forza, influenza e sicurezza vive ormai nei ricordi di chi ormai è in pensione, ma i miti sono duri a morire e la pedagogia nazionale fa buon uso del passato sovietico riadattandolo al presente. Lo stesso Putin, pur condannandone alcuni aspetti, ha riconosciuto come non si possa non essere in qualche modo nostalgici del passato.
Il difficile equilibrio al quale è costretta però la Federazione tradisce difficoltà che al momento vanno oltre gli appetiti revisionisti di un paese impegnato a sopravvivere.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!