La posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo, protesa verso il continente africano del quale lambisce le coste e pivot naturale tra Gibilterra e Suez, dovrebbe già di per sé suggerire che la politica estera nazionale non può prescindere dal suo cortile naturale: il mare.
I fronti caldi che si affacciano sulle coste italiane/su questo cortile, sono rappresentati da teatri diversi ma con alcune caratteristiche comuni, per i quali lo stivale ha sempre rappresentato un interlocutore privilegiato: i balcani oltre l’Adriatico ed il nord Africa, in particolare Libia e Tunisia, al di là dello stretto di Sicilia.
Sicilia come porta italiana sul Mediterraneo
«Sicilia prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare», ovvero «La Sicilia fu la prima a dimostrare ai nostri antenati quale nobile compito fosse dominare su popoli stranieri». Così scriveva Cicerone nel 70 a.C., riferendosi, probabilmente, ad una delle prime grandi guerre d’espansione che l’Impero romano dovette combattere, quella contro Cartagine per il controllo dell’isola e quindi delle rotte marine strategiche che passavano, e passano tutt’ora, al largo delle sue coste.
Successivamente, ed in ordine sparso, proprio da quest’isola gli Alleati decisero, prima ancora che in Normandia, di sbarcare durante la Seconda Guerra Mondiale. Garibaldi sbarcò a Marsala per unire l’Italia, protetto dalla Royal Navy che desiderava sottrarre alla marina borbonica il controllo sullo stretto di Sicilia, essenziale dal punto di vista commerciale e militare per proteggere la rotta tra Suez e Londra. Anche gli arabi, durante una fase di espansione, vi misero gli occhi e la governarono per circa tre secoli a cavallo tra il primo ed il secondo millennio.
L’importanza strategica dell’Isola è quindi riemersa più e più volte nel corso dei secoli che separano il dominio romano sul mare (quasi) nostrum dall’attuale situazione, che vede la Sicilia ultima estensione dello Stato italiano in un bacino estremamente conteso, in cui la Pax Americana deve fare i conti con le pretese di turchi e russi, sempre più presenti in Tripolitania e Cirenaica, e quindi sempre più a ridosso dei confini italiani. Recentemente un gruppo navale russo, composto da sei mezzi anfibi, ha varcato Gibilterra e si è diretto verso il Mediterraneo orientale. Di per sé non si tratta di una minaccia significativa.
La presenza russa nel Mediterraneo
In questi giorni sono in corso delle esercitazioni congiunte tra Francia, Italia e U.S. Navy, che coinvolgono ben tre portaerei con i rispettivi gruppi di attacco, per una potenza complessiva ben superiore a quella russa ma, nel contesto della crisi in corso in Ucraina, si temeva la possibilità che la flottiglia russa potesse varcare i Dardanelli, posizionarsi in Crimea e contribuire nel caso di una escalation (sempre meno probabile). In ogni caso, risulta significativo sottolineare che era dai tempi dell’Unione Sovietica che non si vedeva un gruppo navale russo di simile portata nel Mediterraneo. Questo è anche il risultato dei punti di appoggio che Vladimir Putin ha saputo ottenere nei porti siriani come diretta conseguenza del sostegno ad Assad durante la guerra civile.
La presenza russa in quello che può essere definito un “medio oceano”, termine che fa riferimento al nuovo rango ricoperto dal Mediterraneo nello scacchiere internazionale a causa della rilevanza strategica e della caratura delle marine che vi operano, è appunto possibile grazie all’attivismo che le ha consentito di ricavare spazi di manovra laddove non ne aveva mai avuti.
Il caos libico
Anche in Libia si registra una forte presenza di mercenari legati al gruppo Wagner, longa manus dell’armata russa, e la possibilità di un altro porto russo nel Mediterraneo, questa volta affacciato direttamente sulle coste siciliane, potrebbe non essere così remota. La situazione libica continua ad essere quasi completamente fuori controllo.
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Le elezioni che dovevano tenersi lo scorso 24 dicembre sono state rimandate a data da destinarsi e, fra i 98 candidati (98!), si registravano nomi di ricercati per crimini contro l’umanità, latitanti, capi di milizie locali e discutibili uomini d’affari, non ultimo il premier attuale Abdul Hamid Mohammed Dbeibah. Altro attore presente in Libia con una certa libertà d’azione è la Turchia, che gioca la sua partita espansionistica con un difficile equilibrismo tra la NATO, alla quale appartiene almeno formalmente, la Russia, della quale è interlocutore privilegiato, e paesi mediterranei come Francia, Grecia, e Italia, ostili alla deriva neo-ottomana del presidente Recep Tayyp Erdogan, definito non per caso “dittatore” dal primo ministro italiano Mario Draghi. Sta di fatto che ora la Turchia potrebbe controllare entrambe le principali rotte migratorie verso l’Europa, aprendo e chiudendo a piacere i rubinetti usando decine di migliaia di migranti allo stremo come leva negoziale con l’UE.
La Turchia di Erdogan
Le ultime stime riferite al 2021 dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (IOM) parlano di circa 32.425 immigrati clandestini recuperati in mare e riportati in Libia, quasi il triplo rispetto all’anno precedente. Gli errori strategici, commessi sin dalla capitolazione di Gheddafi e durante l’ultimo decennio, sono ormai assodati e lo stato dell’arte sembrerebbe difficile da cambiare nel breve periodo, a meno che i turchi non passino il segno e vengano riportati a miti consigli da parte dell’amministrazione americana. Un esempio può essere certamente l’acquisto da parte turca di alcune batterie di sistemi antimissile s400, fiore all’occhiello della produzione militare russa. La conseguenza diretta è stata l’esclusione del paese, con veto del congresso, dal programma dei caccia di ultima generazione F35. In questo senso, le minacce di Trump all’economia turca e le sanzione dell’attuale amministrazione Biden in campo militare non devono certo essere piaciute al sultano di Ankara, che per ora procede spedito nel consolidare il ruolo che si è ritagliato.
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