Fotografia è in primis amore e devozione per ciò che si ferma in uno scatto. Solo vivendo intensamente i propri soggetti è possibile rendere su pellicola il fremito di un’emozione rubata.
La prolificità di un artista può essere criticata. Quando sotto accusa c’è un fotografo, gli si può rimproverare che al corso di fotografia, livello base, la prima prova pratica sta nel produrre tanta più qualità, quanta meno quantità si ha a disposizione. Eppure in Robert Doisneau, figlio della Parigi delle banlieue, fresco di primo Novecento, non si può non associare questa frenesia dello scatto a una gioia piena del vivere e del rappresentare.
Quello che io cercavo di rappresentare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere.
È di una tenerezza infinita questo artista che si allena sulla catena di montaggio, partendo fotografo industriale delle officine Renault di Billancourt. E, nel paradosso dell’ingiustizia, è un’umanità vera quella che invece lo attira, quella che rivela la dolcezza sotto l’uniforme rigida dell’omologazione e del contegno.
Doisneau è un collezionista di persone, e di emozioni, e di loro non si stanca mai. Ferma su pellicola l’oblio in uno sguardo, o l’accendersi di un delirio, o la litania di un gesto, o il piegarsi di un sorriso. Non c’è banalità in quello che è scritto sottopelle. Ogni storia umana, per quanto sgranata, sfocata, sbrindellata, merita la sua scrittura di luce.
Doisneau sta nelle vie delle periferie parigine a rubare attimi e scatti che poi muoiono, e morendo vivono all’infinito. Per le strade di Montrouge passano volti su volti, che attraversano labirinti di emozioni differenti. Sono corpi che si intrecciano, o che si accoccolano nella comodità della loro solitudine. Sono vestiti di stracci stirati, o sgualciti dalle corse forsennate, o saturati da una pioggia che di cadere non vuol smettere e che il bon ton impone di risparmiare al violino, grazia nella disgrazia. Ci sono i bambini pensosi sui banchi di scuola, e quelli che, già soldati, sono cresciuti troppo in fretta. E le donne dell’emancipazione, che imbracciano libri, e quelle della civetta, che non è nottola, con le gonne che si mischiano nel vento. Ancora, i panni a stendere, che in alto, sopra le strade, non possono mancare, e i 30, 40 centimetri di baguette, e i calici di birra e vino, che non è il tuo essere piccolo a rendere così enormi.
Doisneau assaggia tutto questo, e con gusto lo lascia sciogliere sulla lingua. È una lentezza frenetica la sua, che vuole cogliere tutto il pullulare che gli vortica attorno, assaporandolo piano. È uno stare sulle persone, senza invadere lo spazio, lasciando che il momento faccia il suo corso, ma valorizzandolo con la memoria. È un cogliere, nel rumore di tutta questa umanità, il respiro flebile di un bambino, il fruscio lieve di una nuvola che si sposta, di un tempo che scorre, e va fermato. E lui vede, sempre, e guarda, «anche quando non c’è niente da vedere».
«Mio padre coniugava il verbo fotografare dal mattino alla sera» scrive il figlio in una delle memorie. E ancora Doisneau: «Le fotografie che mi interessano e che trovo riuscite sono quelle che non arrivano mai a una conclusione, che non raccontano una storia fino in fondo, ma rimangono aperte per permettere anche allo spettatore di fare un pezzo di strada con l’immagine, di continuarla a piacimento; una specie di trampolino dei sogni».
E l’artista, che amava circondarsi di altri artisti, come lui fattucchieri forgiatori di illusioni, e stranerie mentali, e immagini irrisolvibili, è quanto più fisicamente dentro la realtà si possa pensare. Ma in questo reale cerca, continuamente, ossessivamente, un meraviglioso. La meraviglia del riscoprirsi ogni giorno, la bellezza di un mondo pregno, che non si stancherà e non stancherà, a intonare incessantemente, sommessamente o a gridare, la litania sorprendente della vita.
Robert Doisneau è uno dei nomi più importanti della fotografia «umanista» in Francia e precursore, insieme a Henri-Cartier-Bresson, del fotogiornalismo di strada. Ha influenzato i lavori di André Kertész, Eugène Atget, oltre che dello stesso Henri Cartier-Bresson.
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Fotografa in bianco e nero, «impressionista» nel suo catturare attimi sfuggenti, nel suo rincorrere sensazioni già sparite, di cui rimane traccia in retrogusto sulla pellicola. Si assaltano le macchie di colore, frenetiche e ansiose e vibranti di quella vita che imprigionano, ma non le imprigiona. Lottano i chiaroscuri, e si strappano il primato di narratori primi della storia. È tutto un vortice entusiasta, che si spettina e si colora, della libertà che c’è nella semplice esistenza.
Robert Doisneau è attualmente in mostra all’Arengario di Monza, per la prima volta in Italia. L’esposizione conta 80 fotografie originali, delle circa 450.000 che ha realizzato in vita. Ripercorrono i primi quarant’anni della sua carriera, dal primo scatto del 1929. Robert Doisneau. Le merveilleux quotidien rimarrà allestita fino al 3 luglio 2016.
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