Un’epoca priva di rivoluzioni?
Secondo un certo orientamento di pensiero, il contemporaneo non conosce né può conoscere rivoluzioni. Reggendosi strutturalmente su logiche economiche libidinali, esautora l’artefice dell’opera dal proprio lavoro generando per regressum ad infintum soggettività alienate che «combattono per la propria schiavitù come fosse la propria libertà.» Spinoza docet.
La dinamica di assoggettamento-soggettivazione, isolata dalle analisi foucaultiane, pare interessata da un cortocircuito irreversibile che fa precipitare il contemporaneo nell’era cosmica del kali-yuga, contrassegnata nel calendario indiano, da connotazioni ctonie, paradigmaticamente distruttive. Oscura, ingiusta e violenta, l’era del kali-yuga, cominciata con la morte dell’eroe-dio Krishna nel 3102 a. C, è destinata a perpetuarsi per 432 mila anni, prima che un’età dell’oro ancora da venire completi il proprio avvento installando un nuovo ciclo cosmico. Piegate alle esigenze dell’argomentazione la cosmologia indiana segnala qui uno stadio epocale, per l’appunto il contemporaneo, privo di humus rivoluzionario secondo la narrativa di cui si diceva in apertura.
Eppure, che il contemporaneo non conosca rivoluzioni è ipotesi non verificata da sottoporre a vaglio critico, riannodando anzitutto e poi ri-dispiegando le dinamiche di soggettivazione e assoggettamento che foggiano in situazione l’individualità, sussumendo di volta in volta configurazioni specifiche. C’è da interrogarsi su quale sia l’humus di installazione della soggettività contemporanea e su quali siano i suoi (im)possibili spiragli di rivoluzione, partendo dalla consapevolezza, ben colta da Jean-Paul Sartre, che:
Siamo ciò che gli altri hanno fatto di noi. L’uomo non può che deviare la storia secondo una deviazione che gli è già propria.
Rivoluzione e collettività
Il soggetto, ovvero, non si costruisce mai da solo tramite atti solipsistici, ma collegialmente tramite atti etopoietici di liberazione e/o assoggettamento che investono la sua corporeità nel mentre la fa ed è fatta dal mondo. Diventiamo ciò che siamo sempre in situazione insieme agli altri e nell’incontro con gli altri, ora accogliendo ora espellendo ciò che ci viene dal fuori per rifarlo come nostro. Da fuori a dentro, da dentro a fuori in termini riduzionistici.
Si può certamente, con il placito delle discipline socio-psicologiche, individuare nell’influenza sociale – da cui per esempio il conformismo – quel meccanismo complesso per cui le azioni del singolo, specialmente se in condizioni di incertezza, risentono di ogni tipo di informazione proveniente dal contesto sociale. I pensieri, i comportamenti, le credenze e le percezioni dell’Altro entrano attivamente in gioco per orientare il comportamento individuale agendo come presupposti più o meno impliciti e inconsapevoli di soggettivazione e, correlativamente, di assoggettamento.
Come si diceva, si è fatti da ciò che gli altri hanno fatto di noi.
La rivoluzione, qualunque configurazione assuma, per tradursi in un cambiamento sociale di scala, deve mobilitare la collettività. L’alienazione si sovverte a partire dal riconoscimento.
Perché gli uomini lottano per la propria schiavitù come se si trattasse della propria libertà?
Baruch Spinoza risponderebbe con quella semplicità piana, geometrica, che è prerogativa di coloro che sanno restituire la complessità con parole semplici. Si tratta la propria schiavitù come fosse libertà perché non si sa di essere schiavi – Spinoza direbbe “coatti”. Neppure si crede che possa essere altrimenti.
Il contemporaneo, che si è svegliato dal sonno illusorio del moderno e delle sue grandi narrazioni nelle parole di Jean-François Lyotard, appare per definizione postmoderno, e dunque decostruttivo, pervaso dal disincanto e reduplicato in micro narrazioni emozionali e idiosincratiche.
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L’eredità del Postmoderno: una risemantizzazione
Forse non si crede più alla bontà della rivoluzione né alla sua applicabilità. Forse a ragione. Il Novecento ha instillato un cortocircuito che pare non ripristinabile nel e dal contemporaneo, che è per definizione un’epoca in crisi, alle prese con emergenze epidemiche, sfide ecologiche e conflitti geopolitici europei e mondiali, tra cui la guerra russo-ucraina.
Almeno nella parte di mondo in cui ci iscriviamo culturalmente la nozione di rivoluzione è alle prese con una risemantizzazione in corso, che sembra preferirle il concetto di resistenza al potere, analizzato da Michel Foucault, variamente declinato. Resist capitalism/ Resist militarism/ Resist fascism/ Resist to anti-semitism. RESIST. Questi i moniti lanciati dal palco durante il concerto dello scorso sabato 29 aprile di Roger Waters a Bologna, che sembrano qui significativi per segnalare una certa volontà di resistenza in vista di spiragli (im)possibili e alternativi di rivoluzione.
Ma quali sono i luoghi delle dinamiche di soggettivazione/assoggettamento del contemporaneo?
Il dispositivo mediale e le pratiche di resistenza
Non più soltanto gli spazi fisici, chiusi o aperti, analizzati da Michel Foucault nelle sue analisi su potere e dispositivi, ma i social media, che facendo il messaggio come voleva Marshall McLuhan, producono immagini di mondo ben precise in cui all’argomentazione si sostituisce l’agglutinazione di commenti su commenti, alla ragione critica l’emozione del “mi piace”, alla piazza come luogo di mobilitazione la bolla generata da algoritmi informatici programmati per validare le preferenze idiosincratiche degli utenti.
L’iper-connessione mediale non è garanzia di coesione sociale né fattore di aggregazione, riconoscimento e/o cittadinanza, seppure da un lato una certa politica vi ricorra con frequenza per costruire radicamento territoriale e mobilitare il proprio elettorato, e dall’altra i singoli utenti vi rivendichino la propria agency producendo contenuti e reagendo ai post di altri.
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I social media, che non sono spazi neutrali, ma anzi informano e costruiscono in quanto (non)luoghi la lebenswelt degli utenti, concorrono ora alla soggettivazione ora all’assoggettamento, e in quanto tali vanno posti al centro di una qualsiasi indagine o tentativo di tradurre in azione pratiche di resistenza/rivoluzione allo status quo in attesa di un’età dell’oro da venire.
Per aggirare l’alienazione ne vanno rintracciate le forme contemporanee, a partire dal soggetto che scrolla contenuti su schermi mobili in un panorama di frammentazione che coinvolge sia i saperi che le pratiche e in cui lo scollamento tra reale e virtuale sembra in procinto di cronicizzarsi.
Oltre il kali-yuga. Ad rivolutiones.
O alternativamente, RESIST.
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