Continuano a sedurre i poemetti “mitologici” di Ghiannis Ritsos (1909-1990), uno dei più grandi poeti greci contemporanei. Lo scorso anno avevamo visto Aiace; ora arriva Fedra (opera del 1974-1975), produzione del siciliano Teatro dei due Mari, che vanta una lunga tradizione di familiarità con le opere dei classici e le loro riscritture (progetto artistico di Edoardo Siravo, attore di qualità, e regia di Federico Vigorito).
Nella raccolta Quarta Dimensione degli anni ’60-’70, il poeta sonda le proprie radici identitarie e restituisce la voce ai protagonisti del mito, privandoli di paludamenti solenni e museali. In anticipo sulle tendenze postmoderne che invitano a superare e intrecciare diversi codici e generi letterari, Ritsos scopre la “quarta dimensione”, termine preso a prestito dalla fisica. Nei suoi poemetti infatti i confini spazio-temporali esplodono e le profondità archetipiche del mito si rivelano contigue al contemporaneo, in una reciproca interazione di piani e livelli. Oggi la sede più adatta per queste opere ibride, tra drammaturgia e poesia, anche in Italia è il teatro, grazie alla lingua semplice, musicale ed elegante, resa nella splendida traduzione di Nicola Crocetti.
Fedra-donna
Matrigna del giovane Ippolito, figlio di Teseo, Fedra matura una passione divorante per il bel giovane, dedito solo alla caccia. Ma la protagonista di Ritsos è soprattutto una donna alle prese con il proprio abisso interiore che ribolle di sensualità, rimorsi, paure, illusioni.
I legami con il mito e la versione euripidea sfumano in ombre evanescenti, in un continuo intreccio fra sapori antichi e contemporaneità. I riferimenti alla città di Trezene, ad Afrodite e Artemide, convivono con improvvisi cortocircuiti temporali che danno la misura dell’immanenza del mito nell’hic et nunc. L’effetto spaesante, ad esempio degli anacronismi (sigarette, frigoriferi, crocifissi), è superato grazie alla raffinata operazione linguistico-espressiva di Ritsos, che scava corridoi osmotici di corrispondenze: anche i dettagli della quotidianità si caricano di nuovi sensi, la realtà viene scomposta ed è pronta a sciogliersi in una catena di simboli.
Il monologo non è per convincere Ippolito: Fedra dialoga con la propria anima, in una foga distruttiva e auto-distruttrice. La donna è soffocata dal vuoto (del rifiuto), dalla tentazione di un «desiderio-idra», passione inesauribile e mai realizzata, dai doveri sociali che impongono la maschera. Per lei la vita è ingiustizia e solo la morte sembra offrirle la libertà dal tormento interiore. Approderà alla decisione finale del suicidio, ma lascerà al marito Teseo un biglietto, denunciando falsamente di aver subìto violenza da Ippolito. Il regista ha voluto sottolineare che il pensiero della vendetta è in nuce fin dall’inizio: appena arriva in scena, Fedra traccia con un rossetto, su fogli sparsi a terra, grandi lettere dell’alfabeto, in apparente disordine. Notiamo però che i cerchi delle “O” restano aperti: forse non è ancora sicura? Oppure forse i cerchi, come il mito, non si possono chiudere?
Cornici e cromatismi
I poemetti di Ritsos sono incorniciati da lunghe e liriche “didascalie”, con funzione di Prologo ed Epilogo, che in pochi tratti essenziali tratteggiano lo scenario, ma sono parte integrante del testo. Qui il regista le assegna a una voce off, che proviene da una bocca gigantesca sullo schermo. Una bocca sensuale e spaventosa, inquietante come un oracolo.
Ritsos ha dedicato questo poemetto al grande pittore Ghiannis Tsarouchis, e dunque l’attenzione al cromatismo non è casuale. Nello spettacolo sono tre le chiazze cromatiche di rilievo: il vestito rosso e le scarpe tacco 12 di Fedra, insieme ai continui richiami alla «porpora segreta» della passione divorante, che confina con l’immagine del sangue, dei paragoni cristologici, e della morte. C’è poi il nero delle ombre che assediano Fedra, schiacciata in una casa colma della presenza ossessiva e corporea di Ippolito. E infine il dettaglio scenico senz’altro più riuscito: al centro, su una sedia, è posto un manichino con il pallore di una statua. Luci e ombre su di lui creano inquietanti vibrazioni, che confermano però la sua totale immobilità. Si tratta di Ippolito, statua di se stesso, distaccato, apatico, sordo ed estraneo al ribollire delle passioni di Fedra. Un tocco delicato che trasporta negli orizzonti metafisici di Giorgio De Chirico: una presenza-assenza, indifferente, sprezzante, chiusa nel candore algido di casta «santità», opposto alla porpora di Fedra.
Potenza icastica
Il monologo è torrentizio, trapunto di immagini meravigliose: lo spettatore deve abbandonarsi al flusso delle parole, che spalancano improvvisi squarci di bellezza. Una prova importante per Stefania Barca, attrice interessante del panorama teatrale e cinematografico, sola in scena a domare la lingua di Ritsos, che ha un andamento sussultorio, fra sprazzi lirici, evocazioni memoriali, visioni della realtà intrisa di simboli. Ad esempio il colore blu di una piuma, le luci della città come firmamento terrestre, un bianco cavallo selvaggio che lotta per liberarsi dai vincoli, un cielo di stelle pungenti, una lucertola immobile che guarda con il suo occhio onniveggente, uno strano viandante con una valigia vuota che racchiude due biglie di vetro. Luci e proiezioni potevano forse accentuare la potenza icastica di certi passaggi e così la partitura sonora, centrando più lo sfumato che l’eccesso. Alcuni passaggi testuali sono stemperati o omessi, ma talvolta l’esplicitazione rischia di appiattire la sostanza evocativa del logos. Ma lavorare con l’energia poetica di Ritsos è sempre una sfida, e questa Fedra che spezza la maschera e denuda il labirinto della propria anima sofferente, affamata di contatto umano, vittima di un desiderio irrealizzabile, è nel complesso convincente. Soprattutto in questi giorni, in cui la questione femminile è una priorità: Fedra infatti è prima di tutto una donna, che rivela la complessità del suo mondo interiore e la sua solitudine, perché le parole si scontrano sulla rigida corazza dell’incomunicabilità.
Fedra
di Ghiannis Ritsos
con Stefania Barca
progetto artistico: Edoardo Siravo; regia di Federico Vigorito
fino al 11 marzo 2018, Teatro Out Off, Milano