Sono stato a Torino ieri pomeriggio. Di fronte a Palazzo Reale, fra un giocoliere e alcuni musicisti di strada, si trovava uno dei vagoni utilizzati per trasportare i deportati nei campi di concentramento nazisti: è da questo vagone che prende spunto una breve riflessione.
Come a Torino, così in quasi tutte le città italiane, verso la metà di Gennaio, passata l’euforia delle feste, si inizia ad allestire qualche evento per commemorare le vittime della follia nazista: si espone un vagone, si mette in evidenza il binario dal quale partivano i treni, le scuole organizzano conferenze tenute dai pochi superstiti ancora in vita o da parenti delle vittime, si fa qualche lettura, ci si mette a posto la coscienza e il 28 si riparte, più intolleranti che mai.
Cosa significa “giornata della memoria”? Ha senso ripetere meccanicamente ogni anno le stesse parole retoriche e vuote? Bisognerebbe piuttosto ricercare una “cultura della memoria”, ma non fine a se stessa: la memoria per la memoria non è utile a nessuno, non serve ripetersi per un giorno all’anno sempre i soliti luoghi comuni, beceri discorsi da bar.
Dobbiamo concentrarci su una memoria che deve essere necessariamente riflessione.
Come è stato possibile che sia accaduto ciò che è accaduto? Ma, soprattutto, potrebbe accadere ancora?
È questa la domanda che è necessario porsi: si è trattato di cecità volontaria verso una serie di crimini inimmaginabili, l’identificazione di un nemico comune, un nemico fittizio, impossibilitato a difendersi, la creazione di un’idea di diverso funzionale ad unire una popolazione paralizzata dalla paura.
Eppure, posti di fronte alla realtà storica, all’atrocità commessa dal nazismo, non ci accorgiamo che – con le dovute proporzioni – questa intolleranza, quest’odio viene oggi indirizzato su altri soggetti. Solamente con la cultura si può tentare di arginare questo fenomeno. Fino a quando ci limiteremo a ripetere pedissequamente per un giorno all’anno frasi già dette infinite volte, noi tutti resteremo irrimediabilmente e tristemente figli di Eichmann.
Vorrei chiudere questa mia riflessione affidandomi ad un brano forse leggermente lungo, ma portatore di un’umanità che, a mio parere, trova pochi confronti:
«Riflettevo così quando sentii il suono di un violino. Il suono di un violino nell’oscura baracca dove dei morti si ammucchiavano sui vivi. Chi era quel pazzo che suonava il violino qui, sull’orlo della propria tomba? O era solo un’allucinazione?
Doveva essere Juliek.
Suonava un frammento di un concerto di Beethoven. Non avevo mai ascoltato suoni così puri. In un tale silenzio.
Com’era riuscito a svincolarsi, a estrarsi di sotto al mio corpo senza che io lo sentissi?
L’oscurità era totale. Sentivo soltanto quel violino ed era come se l’anima di Juliek gli servisse da archetto. Suonava la sua vita. Tutta la sua vita scivolava sulle corde. Le sue speranze perdute, il suo passato bruciato, il suo avvenire spento. Suonava quello che non avrebbe mai più suonato.
Non potrò mai scordare Juliek. Come potrei scordare quel concerto dato per un pubblico di agonizzanti e di morti! Ancora oggi, quando sento suonare Beethoven, i miei occhi si chiudono e, dall’oscurità, sorge il volto pallido e triste del mio compagno polacco che dava l’addio col suo violino a un uditorio di moribondi.
Non so per quanto suonò. Il sonno mi vinse, e quando mi svegliai, sul fare del giorno, vidi Juliek di fronte a me ripiegato su se stesso, morto. Accanto a lui giaceva il violino, pestato, schiacciato, piccolo cadavere insolito e sconvolgente».
(da Elie Wiesel, La notte)
Alessandro Vandelli