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Ricordare la debolezza, riconoscere il limite: «Solaris» al Teatro I

3 minuti di lettura

Lo spazio-tempo del ricordo

Quando non si può ricordare? Una domanda insolita, divertente in quanto invertita. Solitamente ci si chiede piuttosto il punto di inizio della possibilità del ricordo, in quanto il ricordo nasce nel momento in cui diviene possibile; se non si può ricordare, non si ricorda dunque il punto a partire dal quale non è possibile ricordare.

Il limite ultimo del ricordo viene visto dall’interno, si definisce un cerchio a partire dal suo centro, cuore propulsivo da cui si irradiano gli infiniti luminosi punti che circoscrivono il ricordo stesso. Chiedersi il tempo del non ricordo significa domandare dove collocarsi al di fuori di esso, all’esterno della circonferenza lucente che si racchiude intorno al proprio sole, che illumina uno spazio, concedendo luce, vita.

Il tempo del ricordo è lo spazio illuminato che gravita dal proprio centro, egocentricamente soggettivo, gravoso di una coscienza che riflette la luce che emana la propria lucida consapevolezza.

Ricordare il limite

Il limite del ricordo è il buio, fuori dall’orbita della possibilità soggettiva di ricordare e raccordare al proprio interno i pensieri. Il ricordo è emanazione di sé in uno spazio altro, oltre. È un tentativo di inglobare spazio, si farsi più spazio, di ridimensionarsi, allargandosi tridimensionalmente, perché soprattutto in profondità, in uno spazio che è tempo.

Il ricordo è l’inversione del promanare della luce dell’intelletto per rendere visibile ciò che sta indietro, ciò che è passato. Si cerca di capire, carpire ciò che è stato comprendendolo nella circonferenza del sapere. Fin dove è possibile conoscere, lì il limite ultimo del ricordo. Oltre quest’orbita su cui gravitano gli ultimi barlumi di coscienza, ci si perdere nel vuoto, nessuna attrazione permette di ricondurre alcuni pensieri alla base, alla realtà presente di ciò che siamo.

Il limite del ricordo è il varco che porta alla perdita della differenza tra luce e buio, un’oscurità illimitata. Oltra la consapevolezza non è possibile ricordare, vedere. Il tempo negativo o meglio privativo del ricordo è l’assenza di conoscenza. Non si può ricordare ciò che non si è conosciuto.  Nell’assenza totale di luce non si distingue la realtà, si perde il contatto, si brancola senza sapere dove poggiare le mani. Il ricordo è lo spazio del contatto con la realtà, procedendo a ritroso nella circolarità del ritorno.

Profondità e consapevolezza

All’interno del ricordo è possibile approfondire la piattezza superficiale di un tempo a due lancette che si sussegue. La profondità del ricordo è la possibilità di sfuggire alla superficie banale, e allo stesso tempo di allontanarsi tanto da essa da perderne completamente il contatto. Il ricordo è la messa alla prova della debolezza.

Ricordare è sapersi debole dunque capir fin dove la luce c’è o dove manca. Dove manca la luce non si può vedere nulla, si perde la sensibilità. Ricordare significa tentare una mancanza, avvicinandosi gradualmente a essa.

Quanto più conosciamo, tanto più il ricordo è vivido, e tanto più ci si avvicina al limite, orbita cosmica, ordine impartito dalla nostra parzialità, dalla nostra finitezza. Il ricordo è il dramma dell’umano che si sa, pur non riuscendo a definirsi limitandosi; rischia di perdersi nel vuoto che lo circonda, come una navicella spaziale senza possibilità di ritorno sulla Terra, fuori orbita, orba da qualsiasi lucida conoscenza.

Il grav(it)are della possibilità

Così dal 20 al 23 giugno al Teatro I la regia di Paolo Bignamini racconta con la drammaturgia di Fabrizio Sinisi un viaggio interstellare del ricordo, nella gravitazione della sua possibilità ultima. Solaris – da Solaris scritto da Stanislaw Lem nel 1961 e trasposto cinematograficamente nel 1972 da Andrej Tarkowskji, è la traiettoria della conoscenza attorno alla propria certezza, nella continua messa in discussione, percorrendo l’orbita della sua necessitata indeterminazione perenne.

La perfetta triangolazione attoriale di Debora Zuin, Giovanni Franzoni e Antonio Rosti consente un movimento compartecipativo tra ricordo, luce e buio. È il tentativo di trascorrere, di passare attraverso il ricordo, senza sostare, ma dialogando con esso, senza pretendere che sia esaustivo, che la sua luce esaurisca il futuro, esaudendo ogni desiderio, esautorandone la conoscenza. Il ricordo è una possibilità di una parte di spazio, mai totale.

La totalità comprende necessariamente il vuoto e il buio dunque la mancanza di conoscenza. Nella pressione incalzante di dialoghi acuti e sinceramente sensibili, l’assenza sembra incombere nel cono di luce che ci è consentito, senza prendere atto di un vuoto che come tale, non ha peso né può averne.

Andare oltre il ricordo

La con-sistenza del ricordo è la capacità di stare con la luce, nel limite che ci è consentito, a patto di volere mantere un contatto, una lucidità. La scenografia (scene e aiuto regia di Francesca Barattini, disegno luci di Fabrizio Visconti) luminosa e intelligentemente immaginifica restituisce la perdita nello spazio vuoto e buio come caduta dalla proprio presunta onnipotenza.

 Il ricordo è consistenza luminosa e illuminante della mancanza, che è destinata a restare tale, finché la conoscenza non potrà aumentare. Il ricordo dipende necessariamente dal futuro, il limite aumenta nel progredire della consapevolezza, un sapere insieme che si spinge verso il futuro, verso altri universi temporali nella certezza del proprio limitante presente.

Saper ricordare significa significa essere in grado di vedere il limite, dunque riconoscerlo come “distinguo”, come separazione tra qui e oltre, che sia vuoto, che sia luce, nella consapevolezza di entrambi.

 

Anastasia Ciocca

Instancabile sognatrice dal 1995, dopo il soggiorno universitario triennale nella Capitale, termina gli studi filosofici a Milano, dove vive la passione per il teatro, sperimentandone le infinite possibilità: spettatrice per diletto, critica all’occasione, autrice come aspirazione presente e futura.

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