Lo scorso lunedì 9 gennaio ci ha lasciati all’età di 91 anni il sociologo e filosofo polacco, ebreo di origini, Zygmunt Bauman, una delle menti più seguite e influenti del nostro tempo. Oltre che ad un’analisi sociologica encomiabile, che passerà sicuramente alla storia, Bauman ha il grande merito di essere riuscito a spiegare il presente al “grande pubblico”, grazie a un linguaggio diretto e comprensibile.
Egli muove il suo pensiero a partire dai fenomeni legati alla società postmoderna, come la globalizzazione, la crisi degli Stati e il conseguente crollo delle ideologie, fino ad arrivare all’ingerenza, sempre più forte, delle tecnologie nei rapporti sociali. Tutti fenomeni che, per Bauman, caratterizzano la principale causa di quella che egli definì «la solitudine del cittadino globale».
A proposito della paura di questa nuova solitudine, percepita dagli individui, in una recente intervista Bauman affermava:
«Mark Zuckerberg ha capitalizzato 50 miliardi di dollari puntando sulla nostra paura di essere soli, ed ecco Facebook: mai nella storia umana c’è stata così tanta comunicazione, la quale però non sfocia nel dialogo, che resta oggi la sfida culturale più importante».
Per il pensatore polacco il problema odierno non è tanto il timore di poter essere “visti troppo”, quanto invece la paura di non essere notati per nulla e quest’ultima è la linfa vitale di cui si nutrono i social network. I temi della paura e della solitudine del cittadino globale si inscrivono così perfettamente nella sua ormai celebre teoria della liquidità, utilizzata per identificare il tessuto della società contemporanea: una società che sfugge a ogni categorizzazione tradizionale e che quindi diventa tanto confusionale quanto incomprensibile.
In un’altra recente intervista Bauman affermava che, a differenza delle paure tradizionali, quelle contemporanee sono paure liquide, mobili, elusive, modificabili, difficili da identificare e collocare con esattezza. Anche per questo stiamo male e abbiamo paura senza sapere quali siano esattamente le origini di questo nostro disagio.
Come direbbe il filosofo e psicanalista argentino Miguel Benasayag, la nostra società ha prodotto senza rendersene conto un’ideologia della crisi nella quale il disagio percepito trova ragion d’essere nel cambio della concezione stessa del futuro: dal futuro visto come una promessa al futuro-minaccia.
Altro importante campo d’interesse, in chiave di presente e futuro, per Bauman sono i rapporti di controllo interni alla società contenuti nel saggio Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida (2014), scritto a quattro mani con David Lyon, attraverso cui viene descritto un modello di società differente da quello idealizzato da Jeremy Bentham o da Michel Foucault. Un modello nuovo nel quale assistiamo a forme di sorveglianza capaci di orientare i nostri consumi, limitando di conseguenza la nostra privacy e, soprattutto, la nostra libertà di scelta.
Le analisi lucide sulla società e il suo futuro hanno spesso portato le persone a considerare Bauman come un pessimista; egli però alla dicotomia pessimismo/ottimismo, contrapponeva «l’uomo che spera. Né ottimista, né pessimista, molto sobrio, sa che cosa è giusto, sa che cosa è sbagliato, ma continua a sperare».
Forse abbiamo in questa ultima citazione la migliore rappresentazione di Bauman, un intellettuale critico nei confronti del presente ma aperto alla possibilità di un futuro migliore, un uomo capace di stare al passo coi tempi con quella stessa freschezza di pensiero che l’ha accompagnato fino alla fine.
«Sfuggire all’incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità “autentica, adeguata e totale” sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso».
(Zygmunt Bauman, L’arte della vita)
Pietro Regazzoni
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