La Striscia di Gaza è conosciuta nel mondo come “un carcere a cielo aperto”. Oltre due milioni di persone vivono in un’area di poco più di 360 km2, circa 40 km di lunghezza e una decina di larghezza. Questo sottile territorio è posto sotto assedio israeliano dal 2006, quando Hamas ha vinto prima le elezioni e poi, nel 2007, la guerra civile contro Fatah, la forza politica palestinese sua rivale. Il blocco della Striscia è attuato via terra, dove ci sono chilometri di muri con filo spinato e torrette di polizia che blindano il confine; via mare, dove la marina militare israeliana pattuglia le coste sparando a vista a chi vede anche solo in lontananza, cioè spesso ai pescatori che cercano di guadagnarsi da vivere pescando nelle poche miglia nautiche di profondità in cui è loro concesso; e via aria, con droni il cui ronzio ricorda costantemente alle persone di Gaza di essere osservate e che, da un momento all’altro, da quei punti neri nel cielo potrebbe cadere una bomba.
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I gazawi non possono entrare e uscire liberamente, perfino i permessi per motivi medici troppo spesso non vengono concessi dal governo israeliano. Quella del blocco è una realtà in cui persone malate di cancro non possono accedere a cure che nella Striscia non sono disponibili, perché viene loro vietato di raggiungere gli ospedali nella West Bank in cui farsi trattare.
All’interno della Striscia, sono i campi profughi delle città a raggiungere le soglie di densità abitativa più alte. Un esempio su tutti è al Shati, campo che si affaccia sulla spiaggia di Gaza City a poche centinaia di metri dal porto, dove i dati più recenti, che comunque risalgono al censimento del Palestinian Central Bureau for Statistics del 2006, riportano quasi 90.000 residenti in un’area di 0.52 km2.
I campi profughi nella Striscia di Gaza sono ben diversi dall’immaginario a cui siamo abituati: non si tratta di vaste distese di tende allestite nel bel mezzo di una fuga recente, ma di veri e propri quartieri che costituiscono i luoghi più popolati dei centri urbani locali. Questi campi sono insediamenti stabili, i rifugiati che vi abitano sono i discendenti degli sfollati della Naqba, la guerra del 1948 che i palestinesi chiamano “catastrofe”.
Le condizioni di vita nei campi profughi gazawi, soprattutto nelle zone più povere, sono critiche: sovraffollamento, assenza dei servizi di prima necessità, come fornitura di acqua corrente e di elettricità, deterioramento degli edifici che ospitano le case degli abitanti del posto, complici i sistematici bombardamenti durante le frequenti guerre che affliggono la Striscia e le limitazioni di importare materiale per la ricostruzione imposte dalle forze israeliane.
Quando i media riportano di attacchi dell’aviazione israeliana a target specifici di Hamas nella Striscia, spesso sfugge un dettaglio che però menzionare è fondamentale: questi target specifici, militari o politici, sono spesso case ed edifici che sorgono in pieno centro città. Sono per esempio le case di esponenti di Hamas, che frequentemente si trovano nello stesso palazzo in cui un’altra decina di famiglie vive, e che viene raso al suolo. A Jabalia Camp, il campo profughi più grande della Striscia che si trova a nord di Gaza City, durante la guerra degli undici giorni nel 2021 sono state abbattute abitazioni di centinaia di gazawi. Sono le stesse strade in cui un anno dopo decine di bambini giocano, le donne camminano dirigendosi al mercato e gli uomini sbrigano i loro affari quotidiani, con spiazzi quadrati deserti sullo sfondo alle loro spalle, tra una palazzina e l’altra, al posto di quella che spesso fino a qualche anno prima era stata casa loro.
Mohamed, che vive proprio a Jabalia Camp, spiega:
Hanno distrutto dieci case solo in questa strada. Sai, qui negli edifici ci vivono anche ottanta persone, perché sono di più piani in cui vivono tante famiglie, molte delle quali anche con sei figli. Gli sfollati dell’ultima guerra ora vivono da parenti o in affitto. Aspettano che le case vengano ricostruite, ma non le si ricostruisce perché può arrivare un’altra guerra e può capitare la stessa cosa.
In tutto ciò, camminando per le strade della città vecchia si incontrano bambini che ridono giocando su altalene appese agli alberi, bancarelle di venditori che offrono frutta, verdura e datteri esattamente come in tutti i tipici suq arabi, piccoli di 8 anni che scorrazzano con cassette di menta appese al collo, vendendola per uno shekel a mazzo. Nella moschea più antica di Gaza City, la moschea al-Omari, prima della preghiera decine di ragazzini giocano a calcio, mentre un paio d’altri si dondolano sulle sedie con il Corano aperto sulle ginocchia, mentre studiano.
Gaza non significa solo guerra e assedio, questo i gazawi ci tengono a farlo presente. In una condizione di tensione permanente, in cui molte persone faticano a provvedere al proprio sostentamento per via delle misure del blocco israeliano, in cui da un momento all’altro una bomba può cadere dal cielo e un conflitto può iniziare a devastare centinaia di migliaia di vite, in cui la forza politica islamista al potere al suo interno reprime costantemente i diritti e stronca le aspirazioni, Gaza resta più viva che mai. Molti gazawi non sono totalmente annichiliti dalla guerra e lottano per la loro libertà dall’oppressione esterna ed interna con molti più strumenti di quelli a cui normalmente si pensa. Alla popolazione di Gaza è stato tolto e continua ad essere tolto moltissimo, ma di quel che resta i gazawi ne fanno il punto di partenza per vivere e non solo sopravvivere, per creare, per pensare a un futuro diverso dal presente.
Montaser Alsabe è un film maker a Gaza City, ha lavorato alla realizzazione del Red Carpet Human Rights Film Festival, che dal 2015 cerca di riportare il cinema a Gaza. Montaser sta cercando di fare ciò anche ristrutturando un vecchio teatro dismesso che si trova nella città vecchia per farne un centro culturale e ricreativo per bambini e giovani del posto. Il teatro, nei suoi progetti, diventerà un cinema. Ciò che può sembrare banale a Gaza non lo è, perché nella Striscia i cinema sono stati smantellati e distrutti negli anni ‘80.
Io sono nato durante la prima intifada, in 1987, quindi quando sono nato gli ultimi cinema erano stati distrutti. Mi ricordo che quando ero un bambino, nel 1996, l’Autorità Nazionale Palestinese era a Gaza e ha provato a riaprire due cinema, sono stati in funzione per tre giorni, poi c’è stato uno scontro e delle persone in marcia hanno aperto fuoco contro i cinema. Hanno distrutto le porte e sono entrati nel cinema. Mi ricordo che vedevo il fuoco dalle finestre, dopo abbiamo letto sui giornali che i cinema erano stati distrutti. Un uomo che lavorava lì mi ha detto che oltre 200 pellicole sono state distrutte in quei giorni. Quello è l’ultimo ricordo che ho di un cinema a Gaza. Poi sono diventato un film maker. L’Autorità Nazionale Palestinese non ha indagato su chi fosse il responsabile e non ha offerto protezione ai proprietari dei cinema, che quindi non hanno riaperto perché sapevano che nessun governo li avrebbe protetti. La prima volta che sono entrato in un cinema ero a Parigi, mai a Gaza.
Stare in un cinema è diverso da guardare un film per i fatti propri, chi in un cinema non ci può andare se ne rende conto fin troppo bene, spiega Montaser:
È diverso, è questa la ragione per cui stiamo lavorando a questo progetto qui a Gaza. Perché se non sei mai stato in un cinema puoi pensare che in effetti non sia necessario, puoi guardare un film al computer, su un piccolo schermo, in tv, ma quello che senti è diverso. Andare al cinema è un’esperienza sociale, significa fare qualcosa insieme agli altri, sorridere e piangere insieme ad altri, questa è l’idea, non è solo vedere un film.
L’idea del cinema a Gaza e del Red Carpet Human Rights Film Festival è quella di dare alle persone un motivo per stare insieme, per resistere e per lottare per la libertà:
Nel 2015 era un’idea pazza lanciare un festival cinematografico a Gaza. L’idea era che se sei una persona che vive sotto assedio, con il costante rischio di guerra, da artista non sarai un militare, ma lotterai usando la tua arte, la tua cultura. Per noi il cinema è uno strumento per cambiare la nostra realtà, non si basa su cosa accade tra noi e le forze occupanti o tra noi e il governo locale, si tratta di parlare alle persone con altri strumenti. L’idea è permettere alle persone di ricordare. Uno degli slogan del nostro festival è ‘vogliamo tornare’. Un giornalista mi ha chiesto perché vogliamo un ritorno, di solito le persone vogliono un futuro, non un ritorno al passato, mi ha chiesto se ci riferissimo alla Naqba. Ho risposto che se vogliamo un futuro migliore, dobbiamo guardare al nostro passato, quando avevamo i cinema a Gaza, quando le ragazze potevano camminare per strada con i loro ragazzi e andare al cinema. Era una vita normale allora, oggi non si ha una vita normale a Gaza. Per questo se mi chiedono qual è il futuro migliore per i palestinesi, io dico che è il nostro passato. Questo è ciò che cerchiamo, per far capire alle persone che il nostro passato era meglio. Lo vogliamo fare un passo alla volta: proiettando un film, aprendo un cinema.
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