Cent’anni fa, quando si diceva Regno Unito, si dicevano 37,1 milioni di chilometri quadrati di territorio e 448 milioni di persone. Oggi, la situazione è leggermente diversa. A rischio c’è la tenuta di un regno che, tra Brexit e referendum per l’indipendenza, di unito ha ben poco. Ma facciamo un passo indietro.
La crisi della Brexit
Ѐ la notte del 23 giugno 2016. I risultati del referendum leave or remain sono sempre più chiari: il Regno Unito vuole uscire dall’Unione Europea. Ma è chiara anche un’altra cosa: le spaccature interne al Paese sono insormontabili. Se l’Inghilterra vota leave al 53%, percentuale che sale quasi al 60% se si esclude Londra, la Scozia vota remain al 62%. La divisione di opinione dunque non è, come normalmente accade, tra giovani e anziani o tra ricchi e poveri, bensì tra inglesi e scozzesi, tra gallesi e irlandesi e questo significa che, in uno stesso stato, ci sono presupposti ideologici, antropologici e valoriali completamente differenti. La situazione è piuttosto tesa: lo stato cessa di essere nazione, intesa come unione di un popolo con caratteristiche comuni. C’è chi direbbe che ci siano i presupposti per una guerra civile. O per una secessione.
La questione scozzese: una nuova brexit?
Proprio alla secessione pensa infatti la Scozia. Gli scozzesi, popolo tenacissimo che anche i romani preferirono relegare a nord del vallo di Adriano, sono la più grande delle spine nel fianco per gli inglesi sin dal 1603, quando Giacomo I unì le due corone (Scozia e Inghilterra). Praticamente, da allora, gli scozzesi chiedono l’indipendenza, e l’ultima prova – dopo anni di lotte più o meno democratiche – l’hanno data nel 2014.
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Al termine di trattative tra l’ex primo ministro del Regno Unito David Cameron e Alex Salmond (ex-premier scozzese), fu indetto un referendum sull’indipendenza della nazione. Il risultato, però, fu falsato dal ricatto dell’Inghilterra, che poteva, in caso di vittoria dell’indipendenza, porre il suo veto all’ingresso (vitale) della Scozia nell’UE, impedendo così l’accettazione del nuovo Stato. Si ebbe quindi la vittoria di chi voleva rimanere sotto Londra, ma con la Brexit le cose cambiano. Il ricatto cade e anche la forza degli scozzesi cambia. La Scozia ha infatti sempre avuto una forte vocazione europea ed essere costretti dai vicini inglesi ad abbandonare l’UE è stato un colpo mal sofferto. Perciò, subito dopo gli esiti del voto, gli scozzesi si sono attivati per un nuovo referendum sull’indipendenza, di cui sentivano più bisogno che mai. Questa volta, però, il referendum fu rifiutato.
Tuttavia, Londra non può ignorare la realtà dei fatti: in Scozia i verdi e l’SNP (Scottish National Party) sono sempre più popolari e il parlamento scozzese ha sia laburisti che conservatori all’opposizione. La maggioranza è indipendentista e agguerrita e la nuova premier, Nicola Sturgeon, eletta a maggio, ha affermato di volere un nuovo referendum entro il 2023. E la controversa gestione della pandemia di Boris Johnson non ha aiutato a unire la nazione. Il 72% degli scozzesi non ha fiducia nel premier inglese e nella sua politica sul COVID-19 (percentuale che scende a 40% quando gli intervistati sono inglesi).
Il problema nord-irlandese
Ma di certo l’Irlanda del Nord non se la passa meglio. Creata da poco più di cento anni, da soli ventitré non vede sangue scorrere per le sue strade e il 55% dei suoi cittadini crede che entro venticinque anni sarà fuori dallo UK. Dopo anni di violenze, si è giunti allo status quo nel 1998, ma, da allora, la maggioranza protestante si è sempre più rafforzata ricreando la spaccatura religiosa tra cattolici e anglicani, esplosa lo scorso 2 aprile con scontri tali da smuovere persino Joe Biden per un appello alla pace.
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Saranno gli accordi confusi sulla Brexit, sarà la difficile gestione dell’emergenza da COVID-19, sarà la controversa ex-premier unionista, ovvero filo-londinese, Arlene Foster (spesso definita come la donna che più ha fatto per favorire l’indipendenza), ma l’Irlanda del Nord è oramai una polveriera. Nel 2016 il leave ha trionfato con il 55% e giorno dopo giorno i rapporti con l’Inghilterra, complici anche le trattative con l’UE sul confine, si fanno più difficili.
Brexit e le conseguenze dell’uscita
Ad oggi uno dei pochi collanti è la monarchia e, in particolare, la figura della regina, che ha rivolto proprio pochi giorni fa un discorso al parlamento scozzese, ricordando il defunto marito, e sulle cui spalle grava il peso dell’unità della Gran Bretagna. Eppure, per quanto possa sembrare impossibile, neanche la Regina che ha visto sgretolarsi un impero e un regno è eterna, e il principe Carlo non è esattamente amato, soprattutto in Scozia.
Quindi? Come sarà l’after-queen? E se davvero la Scozia diventasse indipendente e l’Irlanda si unificasse? Che ne sarebbe del Regno Unito? Sono previsioni difficili da fare, così come è difficile che ciò accada nel breve periodo, ma si arriverebbe al paradosso per cui Londra, una delle grandi capitali europee, diventerebbe capitale di un piccolo staterello e la Gran Bretagna farebbe un passo indietro di quattrocento anni, ritornando un Paese di piccole patrie. E proprio per questo paradosso il caso inglese rappresenta al meglio l’impatto della globalizzazione sugli stati europei.
Non solo il Regno Unito: desiderio di indipendenza e globalizzazione
Catalogna, Irlanda, Scozia, Doneck, Kurdistan, Corsica: sono sempre di più gli stati che chiedono l’indipendenza, sempre più frequente il ritorno alle piccole patrie. E anche in Italia fioccano neoborbonici, asburgici, padani, sardi e chi più ne ha più ne metta. Ma com’è quindi possibile che nell’era più interconnessa, più omologata della storia dell’uomo, siano così popolari antiche parlate, tradizioni millenarie, borghi e piccole patrie? Non si tratta solo di un fascino estetico da turista: c’è anche chi è pronto a issare le barricate per difendere la sua terra. Ѐ il paradosso della globalizzazione: le sfide della modernità sono uguali per tutti, ma le risposte variano in base a caratteristiche storiche e antropologiche dei singoli popoli.
E qui viene fuori il problema. Di fronte all’omologazione o si abbandona la tradizione (come succede nelle grandi metropoli) o ci si attacca alla stessa, un po’ per paura un po’ per convinzione, più tenacemente di prima. Ed è così che la Scozia, che da secoli mal sopporta re e regine inglesi, si rimette il kilt e suona la cornamusa, con più orgoglio di prima, perché è proprio quando viene messa in discussione, che un’identità viene ribadita con più forza. E gli inglesi, al riguardo, ne sanno qualcosa.
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