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razzismo e uguaglianza

Che cosa significa (davvero) che siamo tutti uguali?

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4 minuti di lettura

Sebbene la prima teorizzazione del razzismo scientifico venga fatta risalire proprio a un filosofo, Joseph A. de Gobineau, dal punto di vista filosofico il problema del razzismo non è stato affrontato esplicitamente tanto quanto altri temi. Di riflessioni filosofiche sul razzismo si possono trovare tracce nelle opere dei filosofi illuministi come Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, nonché una ricostruzione della storia dell’idea di razzismo è contenuta in un saggio del 1944 di Hannah Arendt edito in Italia con il titolo di Il razzismo prima del razzismo (acquista). Il tema del razzismo, poi, compare nelle ricerche condotte dal Francofortese Theodor Adorno negli anni Quaranta e pubblicate sotto il titolo di La personalità autoritaria.

A proposito di razzismo: la ragione postcoloniale

Tuttavia, l’antropologia, la sociologia e la politica sono stati per anni – e lo sono tuttora – le discipline che hanno fatto del razzismo uno specifico studio tematico, valutandolo come fenomeno sociale tra i più significativi e deleteri per il benessere collettivo delle civiltà moderne e, soprattutto, delle democrazie liberali. Uno studio filosofico importante sul razzismo è stato svolto dai cosiddetti Post-colonial Studies di cui una autorevole esponente è Gayatri Chakravorty Spivak. L’operazione degli studi post-coloniali è, anzitutto, quella di decostruire la nozione di soggetto umano razionale, la soggettività che è stata al centro delle riflessioni della filosofia moderna europea da Cartesio alla filosofia tedesca dal Criticismo kantiano fino all’Idealismo tedesco di Hegel e alla filosofia della prassi di Marx. L’obiettivo è quello di comprendere a che tipo umano fa riferimento la nozione di soggetto. In Critica della ragione postcoloniale (acquista), Spivak afferma che «i testi di cui do una lettura danno per scontato che l’europeo sia la norma dell’umano e ce ne offrono descrizioni e prescrizioni».

Il tipo europeo

Autori come Kant, Hegel e Marx, secondo Spivak, hanno contribuito in modo decisivo alla teorizzazione del “tipo europeo”, cioè del soggetto etico-politico europeo, facendo coincidere l’uomo europeo, cioè un certo tipo di essere umano con particolari caratteristiche, con l’uomo universale, l’essere umano in generale. L’europeo, l’occidentale, nella nostra cultura viene assunto come prototipo dell’umanità, e addirittura come l’unico umano degno di nota e di attenzione. Per cui quando si dice il soggetto, l’essere umano, si fa riferimento al “tipo europeo”, cioè all’uomo occidentale. In questo modo tutti i tipi umani che si differenziano dal tipo occidentale e che possiedono caratteristiche diverse da quello, cadono fuori dalla nozione di essere umano. Sono “forclusi”, per usare l’espressione che Spivak riprende dalla psicoanalisi lacaniana.

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Il razzismo come negazione del negativo

Ciò che Spivak analizza è il processo dialettico di inclusione-esclusione, il processo che sta alla base della costruzione sociale della civiltà occidentale. L’inclusione avviene in modo paradigmatico: coloro che corrispondono, nelle loro caratteristiche, al modello di umanità espresso dal soggetto europeo sono positivamente riconosciuti come uomini e donne a tutti gli effetti, con diritti civili e degni di rispetto e tutela morale. Tutti gli altri, pur esistendo, sono esclusi, non sono considerati propriamente umani, non sono pienamente degni di rispetto e di tutela morale, perché, nelle loro caratteristiche, non viene riconosciuta l’appartenenza a ciò che è ritenuto propriamente umano, ovvero il paradigma del soggetto europeo. L’affermazione del positivo – il soggetto europeo –  avviene attraverso la negazione del negativo: ciò che non vi corrisponde. In questo modo si delimitano i parametri entro cui valutare l’umanità delle persone, e vengono stabiliti i criteri antropologici e etnici con i quali essa può essere negata. 

Siamo tutti uguali?

Ecco il problema. Cosa intendiamo quando diciamo che siamo tutti uguali? Si fa una grande fatica ad usare in modo universalizzante il concetto di essere umano in campo sociale, antropologico, psicologico e culturale. Questo perché, come gli studi postcoloniali affermano, il concetto di soggetto elaborato della cultura e anche dalla storia della filosofia moderna corrisponde all’uomo europeo bianco, eterosessuale, benestante, colto. L’espressione “siamo tutti uguali” si è prestata a descrivere, pertanto, un livellamento teorico-politico, antropologico e sociale dell’essere umano, la riduzione a una uguaglianza come paradigma teorico che riconduce le differenze interne all’umanità a un modello ideal-esistente preciso. Per cui, siamo tutti uguali in quanto corrispondiamo a quel modello in cui ci rispecchiamo.

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Tuttavia l’umanità si dà in modo plurale e non in un unico modello. Il rispetto e il riconoscimento, ma soprattutto l’affermazione e il mantenimento, della diversità e l’unico modo per comprendere la pluralità in cui si dà l’umanità. Se il compito della riflessione della politica diventa quello di ricondurre i particolari a un universale a cui devono conformarsi, oppure quello di escludere chi non si ritrova nelle caratteristiche del modello del “soggetto sovrano”, allora è in opera in ciò una violenza e una forzatura, una stortura del pensiero e una perversione della politica e del riconoscimento sociale e civile che produce solo discriminazioni e atroci sofferenze in seno all’umanità. 

La nuova uguaglianza

L’espressione “siamo tutti uguali” deve essere invece un modo di vedere la variegata pluralità dell’umanità in modo positivo: abbiamo tutti gli stessi diritti, siamo tutti, ciascuno con le proprie differenze, esseri umani. Tutti i tipi umani con le loro caratteristiche sono il soggetto umano; esso non deve essere una nozione che sublima le differenze nell’identità assoluta. In altre parole, la nozione di soggetto umano per essere descrittiva dell’umanità e non prescrittiva deve essere una nozione plurale e non univoca. “Siamo tutti uguali” deve essere una formula antidiscriminatoria, di equità e di fratellanza, e non un’espressione che livella cancellando le differenze etniche, culturali, mentali, riconducendole a un ideal-tipo sovrano. Le differenze ci sono, tutti i tipi umani sono parimenti soggetti, nessuno deve essere invisibile o discriminato per le sue differenze a partire da un ideal-tipo di soggettività umana teorizzato come tale.  


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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.