«Se si guarda attentamente la vita, si vede sfuocato. Scuoti la mano quando scatti. La sfocatura è una parte della vita. Personalmente penso che ognuno debba scegliere il proprio stile, fate quello che vi piace fare e non smettete mai di sperimentare».
William Klein è un fotografo che nasce pittore, che si sgranchisce le dita sotto l’attenta supervisione di Fernand Léger, giovanissimo, nella Parigi degli anni Trenta e Quaranta.
Fotografo capriccioso e sincero all’osso, scardina il dogmatismo preconfezionato e cerca quello che di solito non viene raccontato. Fa l’anarchico, sovvertendo i dettami tecnici a cui vogliono addomesticarlo, e allenandosi invece in quello che non si può insegnare: la sperimentazione. Cerca ciò che di solito si rifugge, il brutto il sudicio l’oscuro l’amorale l’orrido. E anche gli errori ortografici li moltiplica, e ci prova gusto: sfocature, sgranature, eccessivo contrasto e composizione asimmetria. Sono infinite le leggi e le strade nel paese dell’anarchia. Ribelle nella forma e ribelle nel contenuto, Klein fa della sua fotografia una lotta a mani nude contro la fotografia stessa, è un’anti-fotografia, o forse anche meglio una contro-fotografia.
«Ho sempre amato il lato amatoriale della fotografia, fotografie automatiche, fotografie accidentali con composizioni non centrate, tagliando teste, gambe, qualsiasi cosa».
È un’anarchia che si sistematizza poi, quella di Klein. Perché dirimpetto alle regole della classica fotografia di strada, quella principalmente legata al nome di Henri Cartier-Bresson, erige una sua nuova, sovversiva, legislazione, rifondativa della street photography del tempo. La prima massima che lascia è di «non aver paura di andare troppo vicino». Entrare nell’immagine per sentirla, non averne timore, se la si vuole assaporare. Ancora, non prendersi troppo sul serio. E scivolare allegramente tra un tabù e l’altro, schivandoli ora, o calpestandoli poi. E anche, rendere il senso del luogo. Come sempre nella vita poi, divertirsi. «Stavo fotografando per me stesso. Mi sentivo libero».
Klein è un etnografo, perché con i suoi strumenti racconta un popolo e la sua cultura. New York è la sua città natale, dove nasce nel 1928. Ed è la prima città che racconta, e la prospettiva è quella privilegiata di chi dentro ci ha vissuto. La disarma e la squarcia, e la tortura e chirurgo mette a nudo il marcio. Capelli unti e pelli nere, strade ricolme di gente buttata, insegne negozi e facce distrutte. E tante, tantissime pistole. Quello che ci trova, lui dice, è «umorismo nero, assurdità e panico».
«Nel 1950 non riuscivo a trovare un editore americano per le mie immagini di New York. Tutti quelli a cui mostravo le mie fotografie esclamavano: “Questa non è New York, troppo brutta, troppo squallida, troppo unilaterale!” Dicevano anche: “This is not photography! This is shit!”».
Nel 1956 è a Roma per impicciarsi anche un po’ di cinema, e a sorreggerlo mentre muove i primi passi altri non è che il grande Federico Fellini. Ed è nel tempo vuoto del film (Le notti di Cabiria) che temporeggia, che Klein calca le vie di una città che non è la sua, ma che il suo obiettivo già freme di raccontare. Si riempie gli occhi di strade e persone, odori, scorci e atmosfere, e cerca la familiarità che sola può raccontare lo spirito di un soggetto. Il suo lavoro su Roma è raccolto in Roma + Klein del 1959, pubblicato da Contrasto nel 2009 in una nuova edizione.
La tecnica del racconto oculare poi filtrerà altre città: dopo New York e Roma, Mosca, Parigi e Tokyo. È lo sporco, l’insudiciamento di vita, che dà senso ai suoi scatti. Non sono sterili e apatici fermi immagine, ma energia condensata, e ancora trasudante verità.
William Klein sarà in mostra a Milano, al Palazzo della Ragione Fotografia, a partire dal 16 giugno, fino al 16 settembre 2016. William Klein: ABC è una retrospettiva già presentata in parte alla Tate Modern di Londra e al FOAM di Amsterdam.
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