Il nuovo anno è appena cominciato e gli italiani hanno rinnovato la consueta e appassionata partecipazione alla loro attività prediletta: indignarsi, criticare, schierarsi, difendere, discutere una questione che in realtà non ha la minima importanza. Questa volta è toccato a Checco Zalone, che con il suo Quo vado?. In pochi giorni ha raggiunto la vetta della classifica dei film più visti in Italia, superando il record di vendite del suo ultimo film del 2013, Sole a catinelle, e dell’attesissimo Star Wars: il risveglio della Forza.
Quo vado?, Zalone veste i panni dell’italiano medio, che è cresciuto ai tempi della Prima Repubblica con il mito del posto fisso, garantendosi così privilegi e ammirazione da parte dei suoi concittadini. I tempi però sono cambiati: è tempo di riforme, ma quella che abolisce le province lo coglie impreparato. Il suo status di scapolo giovane lo rende facilmente oggetto della richiesta di dimissioni da parte della dirigente. Ma Checco, su consiglio del senatore (impersonato da Lino Banfi) che lo ha “sistemato” all’ufficio provinciale, non cede alle preghiere della granitica dirigente Sironi, la quale, affinché egli ceda e firmi le dimissioni, gli assegna le più disparate mansioni in zone sperdute dell’Italia e poi, come ultimo disperato tentativo, lo invia al Polo Nord in mezzo alle nevi perenni e agli orsi bianchi. Lì incontra Valeria (Eleonora Giovanardi), una ricercatrice idealista che cambia il suo destino e gli fa scoprire i piaceri e le responsabilità di una vita civile.
La pellicola ironizza su quel senso rasserenante, impiegatizio e democristiano della Prima Repubblica e sulla mentalità assistenzialista, come ha spiegato lo stesso regista Gennaro Nunziante: «Abbiamo pensato all’impiegato come un patriota e non come un parassita». Che piaccia o meno, Quo vado? mette a nudo le paure ed i sogni di un ceto medio sempre più impoverito e disorientato, smuovendo anche qualche senso di coscienza.
Già dopo il primo giorno di programmazione è scoppiato un vero e proprio Caso Zalone che ha diviso l’Italia. Si sono scontrati in un duello all’ultimo sangue riguardo alla validità della pellicola da un lato i fans del comico pugliese, che elogiano la pellicola come un balsamo risanatore per la crisi che affligge i cinema italiani, dall’altro una schiera inquisitoria di indignados improvvisatisi intellettuali, che criticano lo scarso livello culturale degli italiani e annunciano la definitiva morte della cultura del paese. Alcuni lo hanno definito di destra, altri di sinistra, renziano, anti-renziano, nostalgico della Prima Repubblica o della seconda berlusconiana; mentre altri ancora, per innalzare la dignità della pellicola, hanno scomodato persino Immanuel Kant e Georg Hegel, o ancora hanno inserito tra i propositi della coppia Zalone-Nunziante quello di tracciare un profilo sociologico del paese.
Il comico barese, però, in un’intervista all’Huffington Post, ha dichiarato che il film mira solo a far trascorrere al pubblico un’ora e mezza di risate, niente di più. E ci è riuscito: la gente in sala ride dei vizi degli italiani, ingenui e mammoni, ritratti con fedeltà dal comico che questa volta, rispetto ai lavori precedenti, ha costruito una coerente trama narrativa – e non una successione di momenti comici slegati tra di loro – con nessi da commedia all’italiana di Dino Risi, Mario Monicelli e Pietro Germi, anche se il loro livello non è ancora stato raggiunto. Sviluppando l’intero asse narrativo intorno al totem del posto fisso, il comico invita tutti a lasciare da parte ogni auto-indulgenza, l’adorazione del welfarismo, le incrostazioni di privilegi che inchiodano il paese nella sua lentezza, per accettare invece le sfide poste dall’essere nel nuovo mondo della competizione. L’approccio scelto per raccontare l’Italia è quello derisorio-grottesco, desolato ma mai rassegnato.
C’è un secondo asse narrativo poi che sviluppa la tipica lacerazione tra Nord e Sud, sia dell’Italia sia dell’Europa: l’avventura di Checco che va a vivere in Norvegia insieme a Valeria e ai figli ripropone l’intero repertorio cinematografico dell’italiano immigrato tra i vichingi e scisso tra la nostalgia del selvaggio paese natìo e il bisogno di adeguarsi al rigore e alla civiltà del paese ospitante, dove a far da detonatori e rivelatori delle differenze, quasi incolmabili, sono i costumi e la morale sessuale. Qui Zalone sembra ispirarsi al più esemplare dei film di italiani sprofondati nel profondo Nord Europa, ovvero Il diavolo, diretto da Gianluigi Polidoro e con Alberto Sordi, in cui emerge la medesima oscillazione tra un senso di inferiorità e di superiorità rispetto ai paesi scandinavi, che si riverbera in episodi di incomprensione e divergenze in seno all’Unione Europea. Ma Quo vado? di Zalone è ben lontano dalla destrezza di Monicelli, Risi e Germi, i quali hanno architettato tutto con una lingua cinematografica e uno stile perfettamente maneggiabile; in Quo vado? manca una visione personale, e, inoltre, la grammatica e la sintassi cinematografiche sono elementari e dominate dall’approssimazione.
Si potrebbe definire l’umorismo di Zalone malinconico poiché, se durante la visione trasmette allegria e strappa molte risate, nei giorni successivi lascia un certo velo di tristezza. Questa tipologia di film inscena le miserie dell’essere umano e i vizi dell’italiano medio in modo scanzonato, suscitando la risata negli spettatori e offrendo una sorta di auto-assoluzione in cui attraverso l’umorismo, come affermava Sigmund Freud, «l’uomo mostra di essere superiore alle sue miserie».
La pena che tendenzialmente si è portati a provare è mitigata quindi dall’umorismo e – come in molte commedie che negli anni hanno impersonato l’italiano medio furbetto, cialtrone, menefreghista e opportunista – viene offerta un’opportunità di riscatto per il protagonista, il quale riesce, tramite un gesto quasi eroico, a liberarsi dai propri vizi. Certamente questo film non mira a offrire una sorta di alibi all’italiano che prende la bustarella, che abusa del proprio potere, che parcheggia in doppia fila o in un posteggio riservato a chi soffre di un handicap, nonostante la facile identificazione collettiva con il protagonista e nonostante l’ironia e la comicità sembrino offrirsi come paravento dietro cui nascondersi per continuare ad agire in modo riprovevole. Personaggi di questo tipo però, incontrati nel mondo reale, trasmettono un greve senso di amarezza e di constatazione che niente cambierà, non muovono alcuna risata, anzi. Forse è proprio da quel senso di disagio e di nausea che attanaglia lo spettatore a visione conclusa che deve ergersi un vero cambiamento.
di Nicole Erbetti
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!
[…] “Quo vado?” e il caso Zalone che divide la critica cinematografica italiana – Il nuovo anno è appena cominciato e gli italiani hanno rinnovato la consueta e appassionata partecipazione alla loro attività prediletta: indignarsi, criticare, schierarsi, difendere, discutere una questione che in realtà non ha la minima importanza. Questa volta è toccato a Checco Zalone, che con il suo Quo vado?. In pochi giorni ha raggiunto la vetta della classifica dei film più visti in Italia, superando il record di vendite del suo ultimo film del 2013, Sole a catinelle, e dell’attesissimo Star Wars: il risveglio della Forza. Zalone veste i panni dell’italiano medio, che è cresciuto ai tempi della Prima Repubblica con il mito del posto fisso, garantendosi così privilegi e ammirazione da parte dei suoi concittadini. Leggi tutto […]