Un rumore stridente, il frastuono della carrozzeria, poi un telefono che squilla e qualche colpo di tosse: lo spettatore è introdotto bruscamente in un incidente tra due motociclisti, un grande impatto, «qui e ora» come il momento decisivo della collisione tra la racchetta e la palla nella metafora tennistica inventata da Claudio, «qui ed ora» che è anche il nome del caricaturale e seguitissimo programma radiofonico ideato e condotto da Aurelio, uno dei due protagonisti di Qui e ora, in scena al Teatro Franco Parenti dal 14 al 19 marzo 2017, con Valerio Aprea e Paolo Calabresi, scritto e diretto da Mattia Torre e secondo atto di una trilogia a lui dedicata, iniziata con Migliore e che si concluderà a maggio con 4 5 6.
Al centro di una scena in cui spicca un disordine post apocalittico, con le carcasse dei due motoveicoli coinvolti accartocciate una sull’altra e fissate in una staticità quasi innaturale, vi sono due uomini e il loro incontro a seguito di un incidente improbabile e stupido quanto lo sono gli incidenti tra motorini («A me gli incidenti tra motorini hanno sempre fatto schifo»), in uno spazio che è un’indefinita periferia romana e in un tempo che è il nostro presente da cui emergono due concezioni antropologiche apparentemente opposte e inconciliabili ma che nel corso dello spettacolo arrivano a collassare una sull’altra.
Aurelio Sampieri (Paolo Calabresi), complice la telefonata a cui risponde ancor prima di alzarsi da terra, è il primo a raccontarsi. Spavaldo e sicuro di sé, su tutte le furie per la seccatura che si è inserita nella sua quotidianità perturbandone la linearità, non ha alcun dubbio sulla dinamica dell’incidente, su come l’altro l’abbia colpito e sulla totale passività del suo ruolo nella vicenda, fatto che incrementa notevolmente il suo fastidio.
Aurelio ha fretta di liberarsi da questo impiccio che, lungi dal rappresentare una circostanza eccezionale, viene vissuto come un ostacolo tra gli altri frappostosi tra lui e il suo programma radiofonico. Nonostante i soccorsi, campioni di un’inefficienza continuamente denunciata, non si decidano a farsi vivi, Aurelio intende mantenere il controllo della situazione ad ogni costo: è un uomo versatile, un Ulisse contemporaneo, che riesce comunque a cavarsela, privo dell’eroismo dell’originale ma con invidiabile prontezza e lucidità pragmatica.
Aurelio è un cuoco 2.0, uno chef motivazionale, che orienta, consiglia, «perché oggi lo chef non deve cucinare, deve parlare», fatto per cui persino in questa circostanza non può venire meno alla sua missione quotidiana: far sognare la gente. E poco conta se per farlo mette in scena proprio lì, al telefono, davanti all’uomo che l’ha investito e che sta a terra, forse morente, un copione ridicolo e a tratti grottesco, ricetta perfetta per il successo del suo programma.
Per buona parte dello spettacolo il personaggio forte è inevitabilmente Aurelio, che con cinismo e servendosi di un linguaggio molto diretto colpisce di continuo Claudio Aliotta (Valerio Aprea), inizialmente sfavorito dalla posizione sdraiata in cui si trova per via delle ridotte potenzialità motorie ma soprattutto da una condizione di inferiorità sociale entro cui viene schedato da Aurelio, che da bravo parlatore quale è, pur avendo a disposizione pochissimi elementi, costruisce supposizioni sul passato, sulla vita e sulle attività dell’altro che è a tutti gli effetti un nemico, trattandolo dapprima come un emarginato, un disturbato, un contadino che ha fatto la scalata dai campi, ha imparato l’italiano guardando la tv e adesso è impiegato; nel farlo proietta su di lui tutti quelli che sono a suo parere i mali della società, radicati in tutti coloro che guardano la televisione la mattina, sovrappeso, e che la domenica sera vanno in pronto soccorso sperando di non lavorare il lunedì, che hanno fatto il mutuo e vivono per morire perché solo arrivati a quel punto, al cimitero, potranno dire «c’ero anche io».
In questo primo contrasto cromatico forte che si delinea tra i due personaggi che si comportano come nemici, reso godibilissimo dall’alternanza di comicità e cinismo delle battute e dal loro ritmo incalzante e colloquiale, ad avere la meglio è indubbiamente Aurelio, che se da una parte prevale sull’altro secondo la logica della legge del più forte, dall’altra incarna perfettamente il modello del self made man del nuovo millennio: l’uomo che senza guardare in faccia nessun si fa un nome da solo, inventando il suo successo dal nulla («un giorno non c’era e il giorno dopo ecco qui») e facendo di tutto per cavarne i maggiori vantaggi.
Agli antipodi di questo successo c’è Claudio, che ha tutte le carte in regola per rappresentare lo sfigato, nell’amore, nel lavoro e dunque nella società, che vive con la madre alla quale è costretto a rendere conto di tutto, privo di quel carisma strafottente che potrebbe colmare almeno in parte le mancanze strutturali legate alla sua condizione.
A parità di mediocrità, in una società in cui la moralità non è un valore, le responsabilità sono vissute in senso più passivo che attivo, la sceneggiatura sembrerebbe suggerire che sono la narrazione che un uomo sa costruire sulla propria vita e il saper prendere palla al piede le situazioni, per usare una metafora cara a Aurelio, a fare la differenza e a distinguere il vincente dal fallito.
Tuttavia, è stupefacente come a più di tre quarti dello spettacolo questa interpretazione venga messa di nuovo in discussione: come nelle fiabe, quando il cattivo sta per vincere ma il buono ottiene imprevedibilmente la sua rivincita, (seppure qui la distinzione buoni-cattivi sia accessoria e intercambiabile) così Claudio riprende forza, fisica e verbale, e in questa nuova veste rende manifesto tutto l’odio che prova verso il suo persecutore e accusatore, non tanto nella persona di Aurelio quanto nel tipo sociale e antropologico che egli rappresenta: «quelli con l’audi», che fanno gli aperitivi, vanno in vacanza in campagna, agiati, consumatori di cosmetica avanzata ma che poi in spiaggia si fermano a parlare con i senegalesi, quelli che vivono negli attici…
Claudio così dichiara che contro ogni previsione quell’incidente non ha nulla di casuale, di fortuito, di incidentale appunto: il debole, l’uomo che non ha mai preso la vita palla al piede, deliberatamente coglie nella possibilità di colpire l’altro il suo momento, la sua occasione per sfogare la sua rabbia contro lo chef radiofonico che sua madre segue ossessivamente e che «in qualche modo ha rovinato la vita di tutti».
Nel finale dominato da un’atmosfera quasi sovrannaturale, in contrasto con il realismo brillante dello spettacolo, a un Aurelio steso a terra basta la scoperta che la madre di Claudio segue il suo programma perché quel risentimento reciproco, dovuto all’incompatibilità delle visioni che i due hanno dell’altro, si annichilisca; l’odio smaschera la sostanziale affinità dei due, impegnati in modi diversi a sopravvivere in un mondo ostile che tende a appiattire le differenze e in cui persino i nemici si è costretti a crearseli.