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femminismo genere

La questione del genere e il femminismo post-strutturalista

Il femminismo post-strutturalista ha messo in discussione la categoria di genere sessuale. Che non è altro che una costruzione sociale.

4 minuti di lettura

Per riconoscere l’esistenza di un individuo all’interno del campo del possibile sembra necessario categorizzarlo in primo luogo come uomo o come donna. L’inscatolamento della soggettività in una di queste categorie non risponde solo ad una distinzione biologica ma anche alla differenza culturale imposta dalle norme del genere femminile e maschile. Se si descrive una persona dicendo che indossa una gonna e che porta i capelli lunghi, l’interlocutore costruisce nella sua mente l’immagine di una donna nonostante non si abbia specificato che tipo di apparato riproduttivo possegga. La matrice culturale tiene il genere in un rapporto così intimo con il sesso che sembra siano la stessa cosa. Attraverso la genderizzazione dei colori, vestiti, sport, giochi etc. l’impostazione binaria uomo-donna viene rafforzata al punto da produrre un modello di genere che appare come naturalmente derivante dal sesso. Tuttavia, il genere non corrisponde al sesso.

Se si teorizza lo statuto di costruzione del genere in quanto radicalmente indipendente dal sesso, il genere stesso diventa un artificio fluttuante

Butler, 1999

Il genere nel femminismo

L’origine della critica alla nozione di genere è legata al consolidarsi del femminismo durante gli anni Settanta, il termine genere divenne per il femminismo uno strumento per dimostrare come le differenze tra uomini e donne fossero un tentativo della società a incanalare il comportamento degli individui secondo alcuni schemi. Fondamentali in questo ambito i contributi di filosofi come Michel Foucault i cui studi sul linguaggio, l’assoggettamento e la disciplina dei corpi sono stati ampliamente applicati dalle femministe e di Jaques Derrida i cui concetti di differimento del significato nel linguaggio, e l’elaborazione della tecnica di decostruzione sono stati considerati come l’autorizzazione a mettere in dubbio la stabilità di qualsiasi concetto e di qualsiasi identità.

In generale, possiamo definire queste femministe come appartenenti alla «terza ondata» che nell’ambito filosofico vide il sorgere della corrente post-strutturalista, la quale respinge le istanze di totalità e universalità e le opposizioni binarie strutturali poiché queste appaiono come ostacoli all’apertura della significazione linguistica e culturale. Seguendo questa prospettiva il femminismo ha contestato la definizione del genere come qualcosa di predeterminato proponendo la sua interpretazione come risultato di un divenire, un essere donna o uomo che è sempre in costruzione. Simone de Beauvoir definiva questo processo attraverso l’idea che «donna non si nasce, lo si diventa», sottolineando come la femminilità la si acquisisce e la si mette in scena. Nella sua formulazione si presuppone un soggetto che in qualche modo assume quel genere ma non ci garantisce che chi diventi donna sia necessariamente di sesso femminile. L’idea di una «verità» del sesso, come la chiamava ironicamente Foucault, è prodotta in relazione alle norme di coerenza e continuità vigenti che cercano di regolamentare le identità. In questo modo, quelle identità in cui il genere non deriva dal sesso non possono esistere nel mondo intellegibile.

Gender Trouble

Judith Butler, pioniera del femminismo post-strutturalista nel suo libro Gender trouble definisce il genere come una costruzione sociale, «di conseguenza non è il risultato causale del sesso né ha, pare, la stessa fissità»[1].  Il titolo evidenzia con il termine trouble il senso di disturbo, fastidio che la questione del genere produce, questo testo è probabilmente una delle opere fondanti della teoria «queer». Partendo dal presupposto secondo cui le categorie di genere non hanno fondamenti stabili, Butler ritiene che anche le teorie femministe che si realizzano intorno a una categoria di donne assunta come identità comune, dovrebbero essere ripensate.

La categoria «donne» può essere riconosciuta solo entro il binarismo mascolinità e femminilità, in questo modo lo specifico della femminilità viene decontestualizzato e separato politicamente dalla costituzione della classe, dell’etnia, dell’orientamento sessuale e degli altri assi di relazioni di potere che costituiscono l’identità. Dunque, sarebbe scorretto presupporre che esista una categoria che va riempita e completata, al contrario, presupporre che questa categoria sia incompleta può renderla uno spazio sempre disponibile ad accogliere i significati in discussione. Per Butler, il genere non è quindi una sostanza stabile e non esprime neanche qualche realtà preesistente, il genere è performativo. Nella misura in cui produce le identità attraverso l’azione, è sempre un fare le cui espressioni non sono precedute da un’identità. Piuttosto, è l’identità di genere ad essere costituita performativamente dalle espressioni stesse che si dice siano i suoi risultati.

Il performativo del genere

L’interpretazione della teoria performativa di Austin è un nodo centrale del pensiero della Butler. Il performativo si riferisce a quegli enunciati che nel dire qualcosa mettono in atto; to perform significa proprio eseguire e questo produce di conseguenza una serie di effetti sociali. Il potere del performativo consiste nella sua capacità di istituire un senso pratico per il corpo. Non solo un senso di ciò che il corpo è, ma anche del modo in cui esso può o non può negoziare la sua collocazione all’interno delle coordinate culturali prevalenti. Attraverso questa potente modalità i soggetti sono chiamati all’esistenza sociale a partire da una varietà di interpelli diffusi.

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Per comprendere il modo in cui agisce il performativo, nel testo Parole che provocano, Butler scrive che basta pensare a come certi insulti vivano e prosperino nella carne della persona a cui sono rivolti, come «si accumulino nel tempo, dissimulando la loro storia, assumendo la sembianza della naturalità». In ciò che producono è possibile scorgere «la storia sedimentata del performativo e i modi in cui arriva a comporre il senso culturale del corpo»[2]. È possibile, tuttavia, espropriare il performativo dai suoi scopi ordinari attraverso la risignificazione linguistica delle parole che determina la produzione di nuovi significati e, di conseguenza, di nuovi effetti sociali.

Per comprendere il genere ma anche le moderne teorie queer, bisogna prima comprendere che il possibile non è mai definitorio, esiste un futuro ignoto, un divenire delle cose che potremmo definire, richiamando Deleuze, «virtuale». Opposto al concetto tradizionale secondo cui il possibile è un modo variabile in cui una forma può tradursi in atto, nel «virtuale» il possibile non è così importante. La virtualità consiste proprio nell’idea che un corpo si può sviluppare ulteriormente secondo possibilità che nessuno ha previsto, essa tiene conto dei possibili che non erano contemplati nel progetto formale originale dello sviluppo di un corpo. Si oppone quindi al possibile nella misura in cui esso è statico e già costituito ma non al reale, tiene conto della pluralità e dell’eterogeneità del reale senza cadere in una concezione metafisica. In questo senso, possiamo affermare che le identità di genere sono «virtuali».

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[1] Judith Butler, Parole che provacano, per una politica del performativo, traduzione Sergia Adamo, Raffaello Cortina Editori: Milano, 2010.

[2] Judith Butler, Gender Trouble Feminism and the Subversion of Identity, traduzione di Sergia Adamo, Editori Laterza: Roma-Bari, 2017, p. 11.

Rachele Scardamaglia

Sono Rachele Scardamaglia, ho 23 anni e sono nata a Palermo. Ho conseguito la laurea triennale in filosofia all'Alma Mater di Bologna, poi ho scelto in modo un po' inusuale di tornare a Palermo per laurearmi in Scienze filosofiche e storiche. Durante la magistrale, ho approfondito il tema dei gender studies e mi sono avvicinata al mondo dell'attivismo transfemminista. Adesso sto scrivendo un progetto di ricerca per partecipare al dottorato in Studi di genere promosso dall'università di Palermo. Amo la mia terra e non voglio scappare.

2 Comments

  1. “Amo la mia terra e non voglio scappare”: ottimo intento, Rachele e cin interessante indirizzo di studio a Palermo.

  2. articolo chiaro ed estremamente denso di contenuti! Sono una giovane studente e avevo proprio bisogno di una spiegazione come questa, complimenti Rachele :):)

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