Il grande antropologo Andrè Leroi-Gourhan sosteneva che l’uomo divenne uomo quando liberò mani e bocca dai vincoli dei quattro appoggi. Notatelo. Per il cane la bocca è una quinta presa; per l’uomo no, la bocca è libera – e può parlare – come libere ha le mani – e può gesticolare, accendere un fuoco, giocare a carte -, l’animale no. Ecco, in sostanza siamo uomini da quando abbiamo imparato a camminare, rendendo sostanziale la posizione eretta. Più che animale razionale, più che bipede implume, l’uomo è l’essere camminante per eccellenza.
Ma non c’è solo questo. Non c’è solo il fascinoso ricongiungimento ad un’origine dimenticata, è però sempre riaffermata. C’è un gesto totalmente sovversivo, una negazione della gravità, un affronto alla stasi che sì, forse dovremmo apprezzare, ed amare, un pochino di più. Vediamo perché.
Socrate, nell’incipit di uno dei più belli dialoghi platonico, il Protagora, si ritrova l’allievo Ippocrate fuori dalla porta di casa, trepidante e smanioso di vedere Protagora, il grande sofista appena arrivato ad Atene per dar prova della sua celebre arte. Che gli dice Socrate? Dice: «calmati, Protagora. Rifletti». E lo invita a camminare.
Una medicina. Camminare riallaccia i contatti con il corpo, lascia che ci si senta di nuovo carme. Le gambe sono il mezzo che automobili, bus, aerei negano per primo. E viaggiare sulle proprie gambe fa la differenza, sentire la spinta della terra scabra. Oltretutto, è un buon esercizio per la salute: tonifica i muscoli, brucia grassi, utile per chi ha problemi di schiena.
Camminare dilata il tempo, impone un ritmo, ed i pensieri si rendono più chiari. Si vede ciò che si pensa. Ecco perché Socrate consigliava al giovane Ippocrate di fermarsi, camminare. Ecco perché Nietzsche ammirava i grandi camminatori (Giulio Cesare, lui dice) ed anzi, proprio camminando gli giunge come d’un lampo quel pensiero, l’idea dell’eterno ritorno.
Ma voliamo basso. Dicevamo del tempo: camminare proietta in una dimensione temporalmente altra rispetto ai ritmi della quotidianità. Intanto, costringe a sentire il tempo, misurarlo attraverso il fiato del proprio respiro. Poi, ne concretizza l’esistenza, lo dilata, e ci svincola dal ritmo delle cosa: ora, camminando, è a partire da noi stessi che misuriamo il tempo, nulla dall’ esterno può davvero costringere.
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Altra questione. Soli o in compagnia? È lo stesso, fa poca differenza, nonostante alcuni (come Stevenson) sostengano che camminare in più di uno non sia camminare, ma scampagnare.
L’importante è sempre lo stesso: guardare al cammino, non a dove il cammino porta. Il cammino è la meta, dicono i pellegrini. E non è importante andare a Santiago per apprezzare la profondità di questo punto.
Ecco un’altra buona ragione per cominciare a camminare, ovunque siate: camminare svincola dalla logica della competitività. Nessuno vi corre dietro, non c’è obbiettivo, né chilometraggio. A meno che non lo facciate per sport, ovviamente. Ma allora non è più camminare, quanto piuttosto camminare-per-essere-in-forma. E son due cose diverse. Lo si realizza davvero quando si inizia a provare il semplice piacere che sta nel fare le cose per il gusto di farle. Provateci, camminate. Vedrete che, come diceva Tacito, si torna a respirare.