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Tel Aviv protesta

Tel Aviv protesta, Jenin sanguina, Roma chiede gas

Crescono le proteste contro il governo israeliano tra le strade di Tel Aviv. Ma aumenta anche la frequenza delle incursioni israeliane in Cisgiordania. Nel frattempo, il primo ministro Netanyahu è stato in visita ufficiale a Roma. Con quale scopo?

5 minuti di lettura

Le piazze di Tel Aviv sono piene di gente che protesta. Mai lo sdegno è stato tale da portare così tanti israeliani a protestare contro un governo: da quando, pochi mesi fa, ha avuto inizio il sesto governo Netanyahu una serie di eventi ha velocemente confermato la prospettiva iniziale, ossia che il già cinque volte primo ministro sia intenzionato a portare avanti, senza alcuna perplessità, uno dei governi più a destra nella storia di Israele.

Intanto, l’occupazione dei territori palestinesi si cristallizza in una politica ancor più distopica: mentre a Tel Aviv gli israeliani protestano per la loro libertà democratica sotto i riflettori della stampa di mezzo mondo, a pochi chilometri, oltre la linea verde, la brutalità dei militari e dei coloni si inasprisce. A pagare lo scotto più alto sono ancora una volta i palestinesi: in Cisgiordania, dagli inizi dell’anno, sono già circa 70 quelli uccisi.

L’ascesa della destra ultraconservatrice

Nel gioco di potere che ha rivisto Benjamin Netanyahu tornare alla ribalta c’è stato un effetto collaterale che il primo ministro non può non aver considerato in anticipo. Per ottenere la maggioranza alla Knesset, infatti, c’è stata l’apertura a esponenti di partiti di estrema destra, celebri per essere portavoce di fanatismo ebraico e aperto razzismo.

Tra questi, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, leader del Partito Sionista Religioso. Il 26 febbraio, dopo l’uccisione in una sparatoria di due soldati israeliani, un’incursione punitiva condotta da coloni israeliani ha colpito il villaggio di Huwara portando alla morte di un civile e al ferimento di circa 100 palestinesi. Il primo marzo, il ministro ha dichiarato il suo sostegno alla “cancellazione” del villaggio. L’altro principale esponente dell’estrema destra al governo è, invece, Itamar Ben Gvir, ministro della difesa nazionale e leader del partito Otzma Yehudit. A gennaio, il ministro ha visitato la spianata delle moschee, uno dei luoghi più contesi di Gerusalemme: un gesto simbolico dalla portata talmente ampia che il suo precedente fu la miccia che accese il fuoco della seconda Intifada.

La protesta israeliana a Tel Aviv

Le proteste che il quotidiano israeliano Haaretz ha definito le più grandi nella storia del Paese sono state innescate principalmente dal tentativo di riforma giudiziaria del nuovo governo. La riforma prevede la possibilità per il parlamento di annullare alcune sentenze della Corte Suprema e affidando la nomina dei membri della Corte proprio al parlamento. Una mossa che rischierebbe di soggiogare l’indipendenza del potere giudiziario e sconvolgere il sistema politico.

La riforma è fortemente voluta da Netanyahu, attualmente sotto processo per corruzione, frode e abuso di potere e che, rispetto alle proteste, ha dichiarato: «Il diritto di manifestare è un valore fondante in democrazia ma questa libertà non è quella di fermare il Paese. Non è anarchia e caos».

Il sangue in Cisgiordania

Mentre a Tel Aviv, Haifa e altre città si protesta contro la riforma giudiziaria, la Cisgiordania è ancora luogo di raid e incursioni la cui frequenza è sempre maggiore con uno spargimento di sangue ormai quasi quotidiano.

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Le incursioni israeliane del 2023 in molte città della Cisgiordania sono già tante. Uno dei luoghi più colpiti è Jenin, da sempre considerata una delle roccaforti della resistenza palestinese, dove il 26 gennaio nove palestinesi sono stati uccisi nel corso di un’operazione militare. Altri raid si sono svolti nelle settimane successive, in particolare il 7 marzo con l’uccisione di 6 palestinesi e il 9 marzo con l’uccisione di altri 3. Tra gli altri luoghi colpiti c’è Nablus dove il 22 febbraio un’incursione israeliana ha portato alla morte di undici palestinesi e al ferimento di cento. La giustificazione dell’IDF, le forze di difesa militare israeliane, è che si tratta di operazioni antiterroristiche. Il 27 gennaio un palestinese ha ucciso 7 israeliani fuori una sinagoga nell’insediamento di Neve Yakov, a Gerusalemme Est. Il 7 marzo un palestinese ha aperto il fuoco verso alcuni israeliani a Tel Aviv, uccidendone 3 e ferendone 6 come risposta, secondo Hamas, all’uccisione di tre militanti palestinesi. In totale, dall’inizio del 2023 sono 5 i palestinesi uccisi dai coloni israeliani e più di 62 quelli uccisi dai militari.

Proteste per la democrazia e democrazie negate

Il rischio di ulteriori escalation in Cisgiordania è alimentato dalla stasi della situazione dell’occupazione ma anche dall’assenza di prospettive politiche reali, dall’inerzia dell’Autorità Nazionale Palestinese stessa, dall’aumento di colonie e insediamenti israeliani che violano il diritto internazionale, da un fanatismo ebraico crescente che trova supporto nel governo ultraconservatore.

Ma non bisogna ignorare l’indifferenza in cui anche le aree più liberali israeliane spesso versano rispetto a quanto accade sul versante palestinese: un disinteresse alimentato dalla disinformazione e dal silenzio dei media sull’argomento e che porta a idilliache proposte di accordo che ignorano le reali esigenze dei palestinesi. Il risultato è, ancora una volta, quello di monologo che non ha alcun tipo di interazione reale con la popolazione della Cisgiordania e di Gaza. Ed ecco che una protesta per la democrazia, tra le strade di Tel Aviv, se ignora la politica di occupazione, non è altro che un tacito supporto a quello che ormai molte organizzazioni internazionali definiscono apartheid.

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Intanto si avvicina l’inizio del Ramadan, mese sacro per i musulmani. Come già da molti anni a questa parte, però, il Ramadan in Palestina rischia di essere un periodo di nuove provocazioni da parte dei coloni, spesso protetti dall’esercito israeliano, nei confronti dei palestinesi con conseguenti scontri e raid in luoghi sacri alla religione islamica. Lo scorso anno, teatro di incursioni è stata anche la moschea di Al Aqsa a Gerusalemme.

Netanyahu in Italia e la questione “capitale”

Pochi giorni fa, il primo ministro Netanyahu è venuto in visita ufficiale a Roma incontrando la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. L’incontro era per lo più finalizzato a scopi commerciali, per garantire con un maggior apporto di gas da parte di Israele verso il nostro Paese. La premier ha espresso solidarietà a Israele e la condanna per gli attentati terroristici esprimendo la volontà dello stato italiano per facilitare la ripresa degli accordi e una de-escalation tra Israele e Palestina. Alla stampa italiana che faceva riferimento a “violenze nei territori”, Netanyahu ha posto l’accento sulla mancata volontà dei palestinesi di riconoscere lo Stato israeliano. Nessuna domanda è stata posta sulla volontà inversa.

Per molti osservatori internazionali, però, la visita Netanyahu aveva lo scopo di ottenere un tornaconto politico. Il primo ministro ha infatti dichiarato alla stampa la volontà che l’Italia riconosca Gerusalemme come capitale d’Israele, elemento su cui non ci sono state dichiarazioni da parte di Giorgia Meloni. Il leader della Lega e Ministro delle infrastrutture, Matteo Salvini, su Twitter, ha invece immediatamente espresso il suo supporto alla richiesta.

Israele, dopo aver occupato anche Gerusalemme Est nel 1967, l’ha dichiarata sua capitale indivisa nel 1980 in violazione del diritto internazionale. Nel 2019, su stimolo di Donald Trump, gli USA hanno ufficialmente riconosciuto la città come capitale di Israele. Nessun Paese dell’Unione Europea si è allineato a tale decisione, nonostante molti politici di destra ed estrema destra, negli ultimi anni, abbiano spesso sposato posizioni in tal senso. Con la crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina, Netanyahu sa adesso di avere un’arma di scambio forte per ottenere più risultati sul piano internazionale e andando così ad aumentare il consenso dei conservatori nel proprio Paese.

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Gianluca Grimaldi

Napoletano di nascita, milanese d'adozione, mi occupo prevalentemente di cinema e letteratura.
Laureato in giurisprudenza, amo viaggiare e annotare, ovunque sia, i dettagli che mi restano impressi.

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