Fra il 1875 e il 1881 uno scavo tedesco riportò alla luce i resti della cittadina di Olimpia, nel Peloponneso nord-occidentale. Sotto gli occhi degli archeologi riemergevano imponenti edifici sacri, ma anche strutture destinate alle competizioni atletiche: dopo quasi duemila anni, tornava alla luce la sede dei celebri Giochi Olimpici antichi. La curiosità e l’entusiasmo per quella scoperta dilagarono in tutta Europa e nel 1894 un francese, Pierre de Frédy barone di Coubertin, ebbe l’idea di riproporre l’antica competizione. La proposta piacque: quello stesso anno in Grecia si svolse la prima edizione delle Olimpiadi moderne.
Sebbene ispirate ad esse, le Olimpiadi moderne sono molto diverse da quelle antiche e non soltanto per le nuove discipline atletiche. Lo spirito stesso dei Giochi è completamente opposto. Il principio fondamentale delle Olimpiadi moderne è ben riassunto dalla frase di Coubertin, divenuta proverbiale: «L’importante non è vincere, ma partecipare». Due millenni e mezzo fa, però, un greco si sarebbe fatto grasse risate sentendola. Partecipare non era affatto sufficiente: gli atleti ambivano alla gloria e all’immortalità che solo la vittoria poteva garantire.
L’origine delle Olimpiadi non era certa nemmeno per i Greci. Come sempre per gli avvenimenti più importanti, tuttavia, la loro nascita era legata al mito. Ne esistono due versioni, considerate entrambe valide. Secondo la prima, i primi Giochi furono istituiti in onore di Pelope, l’eroe che diede il nome al Peloponneso, ed erano giochi funebri. Essi dovevano ricordare la vittoria di Pelope su Enomao, che egli aveva sfidato nella corsa con i carri per ottenere la mano di sua figlia Ippodamia; un episodio mitico di capitale importanza, tanto da essere raffigurato su uno dei due frontoni del tempio di Zeus Olimpio. Ma i giochi funebri in onore di un eroe erano pratica diffusa nel mondo greco delle origini, come provano quelli raccontati nell’Iliade (i più celebri, quelli per Patroclo ed Ettore).
L’altra versione del mito, invece, attribuisce la fondazione delle Olimpiadi ad Eracle, eroe panellenico e atleta per antonomasia. Egli, giunto in Elide per compiere una delle sue fatiche, avrebbe fondato vicino alle rive del fiume Alfeo il culto di suo padre, Zeus Olimpio, da cui la città prenderà il nome. In onore del dio organizzò anche i giochi quadriennali, che sarebbero divenuti comuni a tutto il mondo ellenico. I Greci non si ponevano troppo il problema di quale fosse la versione “vera” del mito. La cosa più importante era ricordare che i Giochi erano in primo luogo una manifestazione religiosa e che Olimpia era un luogo sacro. Un elemento molto diverso da ciò che oggi caratterizza le nostre Olimpiadi.
I Greci fissarono la data della prima Olimpiade all’anno che per noi corrisponde al 776 a.C.: a questa data risaliva infatti la più antica lista dei vincitori a Olimpia. E fu considerata di tale importanza da essere assunta come anno zero, la base per la computazione degli anni comune a tutti i Greci. I primi Giochi duravano soltanto un giorno e prevedevano, come unica competizione, la corsa a piedi (stadion). Con il tempo vennero introdotte altre discipline, come il pugilato, la lotta, il temibile pancrazio, il pentathlon, le corse con i carri. È curioso però notare che le prime gare introdotte erano quelle legate all’attività militare. In effetti, spesso l’atleta era considerato il contraltare in tempo di pace del soldato. Instancabile, forte e valoroso, l’atleta combatteva – non sul campo di battaglia, ma sulla sabbia dello stadio – per la gloria propria, della famiglia e della città.
Il campione olimpico, insomma, era l’incarnazione dell’ideale eroico in un’epoca in cui la guerra di Troia era ormai un lontano ricordo. Ma sarebbe un errore pensare che alle Olimpiadi si gareggiasse anche in nobiltà d’animo e generosità. Una delle convinzioni più diffuse oggi, ad esempio, è che durante lo svolgimento dei Giochi – che nel loro momento di massimo splendore duravano dai cinque ai sette giorni tra fine luglio e inizio agosto – ogni attività bellica fosse sospesa. Così non era: le città greche impegnate nelle contese si limitavano a garantire l’immunità ai partecipanti ai Giochi Olimpici, sia atleti che spettatori, semplicemente perché essi erano prima di tutto fedeli che si avviavano verso una città sacra per prendere parte ad una cerimonia religiosa. Il mondo non si è mai fermato per le Olimpiadi e meno che mai lo fece la guerra. Se mai, fu la guerra a fermare le Olimpiadi nel 1916, nel 1940 e nel 1944.
Non tutti potevano partecipare ai Giochi di Olimpia. Inizialmente per avere questo onore il requisito minimo era avere padre e madre greci e non aver mai subito condanne legali. In seguito, con l’espandersi della civiltà ellenica, fu sufficiente essere parlanti greci. Oltre agli stranieri, anche la popolazione meno abbiente era esclusa dalla partecipazione alle Olimpiadi, non tanto per una regola scritta, quanto per l’impegno di tempo e di denaro che questa comportava. Oltre a procurarsi l’attrezzatura sportiva, tutta a spese dell’atleta, era necessario presentarsi a Olimpia trenta giorni prima dell’inizio delle gare e garantire una preparazione atletica di almeno dieci mesi ininterrotti. Si trattava, dunque, di dedicarsi all’attività sportiva per quasi un anno. Una quantità di tempo che i normali lavoratori non potevano permettersi di sprecare.
Il tipico atleta olimpico era dunque un giovane rampollo di una aristocratica e ricca famiglia, che poteva permettersi di investire nel suo futuro atletico. Conformemente a questo quadro, dunque, il premio per il vincitore non era una somma di denaro, ma una corona fatta con ulivo sacro dell’altis (il boschetto sacro dedicato a Zeus). A questo proposito, vale la pena leggere un brano di Erodoto in cui si racconta dello stupore di alcuni membri della corte del re persiano Serse:
«Il Persiano chiese quale fosse il premio in palio per i concorrenti: ed essi risposero che era una corona di olivo che veniva assegnata al vincitore. Allora Tritantecme, figlio di Artabano, espresse un’opinione nobilissima e per questo fu tacciato di viltà dal re: quando sentì dire che il premio consisteva in una corona e non in denaro, non riuscì a tacere ed esclamò davanti a tutti: “Ahimè, Mardonio, contro quali uomini ci hai portato a combattere? Uomini che gareggiano non per il denaro, ma per l’onore!».
Nonostante questo, però, non bisogna pensare che gli atleti vincitori si ritirassero a vita privata. La vittoria portava loro una grande fama, come quella che possono avere oggi gli attori hollywoodiani. Si iniziava con il commissionare una statua che avrebbe trovato posto nei donari di Olimpia, posti poco prima dell’ingresso allo stadio: in questo modo i futuri atleti e gli spettatori avrebbero avuto per sempre sotto gli occhi i nomi di coloro che conquistarono la vittoria. Iniziava poi una sorta di tour della Grecia, durante il quale gli atleti erano ammirati e osannati dal pubblico, ospitati con grandi onori dalle città e cantati dai poeti più richiesti dell’epoca. La gloria e l’immortalità, insomma, avevano un loro lato più pratico.
E i perdenti? Non c’era gloria per chi arrivava sui gradini più bassi del podio. Se l’obiettivo era vedere il proprio nome scolpito per sempre nella pietra di Olimpia, chi non vi riusciva non meritava nemmeno una menzione d’onore. Le parole del grande poeta Pindaro, autore di svariati inni dedicati agli atleti, saranno sufficienti a chiarire che, davvero, l’importante era vincere.
«Dall’alto piombasti
su quattro uomini meditando rovina;
a loro i Giochi non riservarono
un festoso ritorno pari al tuo,
né, quando giunsero presso la madre,
un dolce riso suscitò letizia
intorno ad essi, ma per i vicoli oscuri
schivando i nemici si acquattano,
morsi dalla sventura».
Per approfondimenti sull’argomento, si consiglia il recentissimo saggio: Cantarella E. e Miraglia E., L’ importante è vincere. Da Olimpia a Rio de Janeiro, ed. Feltrinelli (2016), 14,00€.
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