di Paolo Saporito.
Nel panorama del cinema italiano, Michelangelo Antonioni non ha bisogno di presentazioni. A partire dagli anni ’60, grazie alla trilogia composta da L’avventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962), il regista ottiene un successo internazionale e viene riconosciuto come il creatore di un linguaggio cinematografico unico, dove la telecamera tende ad analizzare la realtà, sia scomponendola in forme astratte, sia restituendola nella sua dimensione concreta e materiale.
La critica, così come lo stesso Antonioni, ha sempre fatto riferimento ai tre film citati come alla «trilogia dell’alienazione», rappresentazione della deprimente condizione esistenziale, in apparenza allegra e luccicante, in cui la borghesia italiana viene immersa dal boom degli anni ’50. Lo sviluppo economico del dopoguerra porta con sé una logica alienante, tipica della società consumistica, che affligge i personaggi di questi film e trova nei protagonisti maschili e femminili diverse declinazioni.
Nel caso delle figure femminili, il discorso di Antonioni assume degli sviluppi interessanti, largamente riconosciuti dalla critica. Secondo Peter Brunette, per Antonioni «le donne sono più sensibili degli uomini e perciò sono esemplari migliori dell’alienazione che la società contemporanea ha imposto su tutti gli esseri umani»[1]. Tuttavia, le protagoniste femminili di film come La notte e L’eclisse non sono semplicemente buoni “esemplari” di questo fenomeno, sono anche altro, sono esseri umani che cercano di ricostituire una serie di possibilità di sviluppo personale in quello stesso ambiente distorto dalla medesima logica. In questi due film in particolare, esse sono sì estraniate da un milieu sociale in cui non si riconoscono (specie nel caso di Lidia e Valentina) e da cui sono irrimediabilmente oppresse (più evidente nel caso di Vittoria), ma al tempo stesso esse tentano di costruire una relazione alternativa e più coerente con l’ambiente che le circonda, quest’ultimo inteso sia come ambiente naturale sia urbano.
Questo processo costruttivo rimane comunque molto travagliato (nel senso che non ha l’effetto di una panacea per tutti i mali derivanti dalla diffusione della logica capitalistica), ma può tuttavia essere descritto come un’ampia parabola che include le tre protagoniste femminili lungo un percorso di ricerca progressivo. La prima tappa di questo percorso coincide con una fase di ricerca di spazi di interazione con l’ambiente, alternativi a quelli in cui il sentimento alienante è più forte. In questo senso, il tragitto che Lidia compie dal centro di Milano alla periferia del capoluogo lombardo è l’esempio più evidente di come uno spostamento fisico simboleggi la necessità di liberarsi dell’asfissia urbana della metropoli verso quelle aree dove la natura riesce ancora ad emergere. È interessante notare come questo percorso finisca in corrispondenza di un albero al quale la donna si accosta con l’orecchio, come se fosse in attesa di qualcosa, una vibrazione sonora proveniente dalla materia naturale. Lidia è alla ricerca di una via d’uscita dalla sua condizione alienata e spera di cogliere l’emergere di un cenno liberante da quella corteccia in cui le iniziali dei due amanti (lei e Giovanni) erano state incise nel loro passato.
Tuttavia, come detto, per Antonioni ambiente non significa soltanto natura. Al contrario, il regista è ben consapevole che il mondo contemporaneo è fatto anche di ferro, acciaio e cemento ed è in questo contesto che gli esseri umani devono ricostruire il loro rapporto con gli oggetti e la loro dimensione materiale, cercando di spogliarsi di quella foga consumistica che distrugge l’ambiente nella sua interezza.
È questo che esprime la sequenza in cui Vittoria interagisce con le aste portabandiera, nella prima parte centrale de L’eclisse.
In questa scena, la donna è completamente catturata dalle percezioni sensoriali, visive e uditive, generate dal vento che muove i fili di acciaio attaccati alle aste. E qui giace il “mistero” di questa scena e dell’interazione con la donna, perché l’immagine cinematografica mostra come i cavi collegati alle aste non siano veramente visibili, se non quando illuminati dalla luce. Le vibrazioni che Vittoria percepisce, il movimento della materia e la produzione di suono, sono qualcosa di indipendente dallo sguardo della donna. Come Vittoria dice poco prima di questo incontro, «le cose devono andare avanti un po’ per conto loro»: gli oggetti, e l’ambiente che li circonda, fanno parte di un processo interattivo che l’uomo non può veramente comprendere fino in fondo e che non dovrebbe avere la presunzione di controllare fin nella sua intima essenzialità.
Infatti, è Valentina stessa a descrivere la rinuncia a questa presunzione attraverso le parole che compongono la registrazione fatta ascoltare a Giovanni nella camera della ragazza (siamo qui nella parte finale de La notte). L’espressione «un parco è pieno di silenzio fatto di rumori» contiene un ossimoro ermetico, assurdo, che però diventa comprensibile se pensiamo a come la ragazza apra se stessa e le sue facoltà sensoriali all’ambiente circostante senza, come direbbe Jane Bennett, “l’ambizione” di controllarne i possibili stimoli[2]. Nel prosieguo della registrazione («Se metti un orecchio contro la corteccia di un albero e rimani così per un po’ alla fine senti un rumore. Forse dipende da noi, ma io preferisco pensare che sia l’albero»), Valentina si rivela disponibile ad “ascoltare” la materia, a coglierne eventuali forme di espressione che l’ottusità dell’occhio e del giudizio umano spesso non coglie, e si pensi a come queste parole siano una eco del gesto di Lidia appena descritto.
È in questo senso che la rappresentazione della femminilità in La notte e L’eclisse assume un carattere più propriamente etico. Nell’approccio femminile alla dimensione materiale dell’ambiente, Antonioni fa riferimento alle donne come prospettiva alternativa a quella maschile e dominante che, attraverso il capitalismo, ha portato la società umana a essere vittima dell’alienazione. Perciò, ciò di cui l’umanità borghese ha un estremo bisogno per “sopravvivere” in modo più armonico all’interno dell’ambiente naturale e urbano che la circonda è un cambiamento di prospettiva radicale. L’individuo deve innanzitutto riconoscere i propri limiti di essere “umano” e, in quanto tale, ammettere la possibilità che esistano prospettive e punti di vista che partecipano al reale benché completamente diversi, radicati in una dimensione materiale alla quale l’umanità non sempre appartiene.
[1] Brunette, Peter, The films of Michelangelo Antonioni. Cambridge; New York: Cambridge University Press, p. 8, 1998 (traduzioni a cura dell’autore dell’articolo).
[2] Bennett, Jane, Encounters with an Art-Thing, Evental Aesthetics 3, no. 3 (2015): 91-110.
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