L’Età ellenistica vide in tutto il bacino del Mediterraneo una proliferazione culturale senza precedenti: influenze reciproche fra Occidente ed Oriente andavano ad arricchire il patrimonio di entrambi, in uno scambio dai risvolti decisivi per la storia di tutto il continente europeo. A Firenze, Palazzo Strozzi, la mostra Potere e Pathos. Bronzi del mondo ellenistico propone un viaggio alla ricerca di quel tempo perduto, con una rassegna di oltre cinquanta opere del periodo. I bronzi esposti, nel loro polimorfismo, con le incrostazioni dovute a secoli di esilio subacqueo o con le scalfiture di una zappa che li ha rinvenuti dissodando un terreno, rappresentano al meglio il volto di un’epoca di profondi mutamenti, in metamorfosi. Le cavità degli occhi dei personaggi ritratti, uomini di potere, arringatori, generali, sembrano aperte verso il tempo di crisi di cui sono stati testimoni, un’era di travaglio e fioritura è scritta nelle righe scolpite. “Molti sommi uomini lasciarono di proposito statue e ritratti, immagini non degli animi ma dei corpi”, così Marco Tullio Cicerone, difendendo in tribunale il poeta Archia. Chissà che non avesse in mente proprio questi ritratti, così realistici, di uomini dal cipiglio serioso e la barba non curata.
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Forse, però, Cicerone aveva sbagliato un punto della sua osservazione: i bronzi del mondo ellenistico della mostra fiorentina, i volti, i busti, raccontano anche storie di anime, e non solo di corpi. Nel dinamismo dell‘atleta colto nell’atto di lanciare, forse, un disco (rimangono solo tronco, un braccio e le due gambe) si coglie lo spasimo della gara, la tensione concentrata nell’attimo decisivo. È nobilmente imperioso l’Arringatore che chiede silenzio, con il suo gesto cristallizzato nei millenni, l’istante prima di prendere la parola. È quasi malinconico il volto di Poliorcete, il figlio di Antigono Monoftalmo, glorioso generale nemico di Cassandro, vincitore e sconfitto, manovratore di gesta intricate e sanguinose. È di una bellezza e di una sensualità conturbante il corpo dell’Apxyomenos proveniente dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, giovane atleta che si deterge le membra, insieme spudorato ed ingenuo. Al suo fianco è esposta l’identica opera in marmo, conservata a Firenze, che servì al restauro del bronzo (ritrovato diviso in 234 pezzi).
Splendida la sezione Divinità, con i due Apollo, l’uno di Pompei e l’altro di Parigi, così ieratici nella loro forma di kouros egizio, con la Minerva di Arezzo, dea scesa in Terra, verrebbe da dire matrona un po’ rustica e dal carisma concreto. Spicca, nell’ultima sala, il celebre Idolino di Pesaro, rinvenuto nella città marchigiana nel ‘500 e creduto un Dioniso fanciullo: si tratta di una copia romana, utilizzata come portalampade, la cui sconvolgente perfezione del corpo efebico può effettivamente far pensare al dio dei culti misterici. Nella stessa stanza è esposta un’erma raffigurante appunto Dioniso, nelle vesti, però, di divinità anziana, con l’attributo maschile esposto a scopo apotropaico, come era frequente trovare nei crocicchi.
La mostra, realizzata in collaborazione con il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, la National Gallery of Art di Washington e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, è stata curata da Jens Daehner e Kenneth Lapatin. Potere e Pathos è una grande occasione per venire a contatto con le nostre radici, per trovarsi a quattrocchi con uomini vissuti più di duemila anni fa. Nei riflessi delle statue esposte, nelle sue sfumature ora lucide ora opache, sempre cangianti, è possibile leggere il libro di una, di numerose civiltà, e contemplare la grandezza sacrale di una potenza, di sentimenti, che la Storia e le vicende dell’uomo hanno sgretolato e sepolto, ma che resistono, impressi nel bronzo.
Michele Donati