Kafka, Strehler, Carpi. Quello che ha dato vita all’opera lirica La porta divisoria è senza dubbio un insieme di eccellenze: La metamorfosi, il testo forse più iconico dello scrittore boemo protagonista della letteratura a cavallo tra Otto e Novecento, viene preso a metà del secolo scorso da uno dei più grandi registi teatrali per diventare un’opera musicata dal maggiore autore di musiche di scena del teatro italiano del secondo Novecento. Una formula vincente sotto tutti i punti di vista, che però ha avuto un percorso travagliato, vedendo la luce solo nel settembre del 2022, a venticinque anni dalla morte di Strehler e Carpi, con una prima mondiale al Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto. Dopo il debutto due anni fa, lo spettacolo ha ricominciato a essere rappresentato nel giugno di quest’anno, in occasione del centenario della morte di Franz Kafka, a Trieste, città cara sia a Kafka che a Strehler. La porta divisoria è disponibile su Rai Play.
L’amicizia e il lavoro di Giorgio Strehler e Fiorenzo Carpi
La porta divisoria è un’opera in un atto unico diviso in cinque quadri narrativi. Il libretto nasce negli anni Cinquanta del Novecento per mano di Giorgio Strehler, ispiratosi a La metamorfosi di Franz Kafka, e rimane l’unico libretto d’opera scritto dal grande regista. Il lavoro fu commissionato dal Teatro alla Scala per la stagione 1956/57. Fu il suo caro amico e compositore Fiorenzo Carpi, che accompagnò tutta la carriera teatrale di Strehler, a occuparsi delle musiche. Quest’ultimo, tuttavia, non terminò l’ultimo dei cinque quadri previsti e l’opera venne tolta dal cartellone, per riapparire e scomparire nuovamente in quello delle due stagioni successive. Carpi non finì mai l’opera, lasciandola incompleta e, dunque, irrappresentabile. Il manoscritto è stato conservato nell’Archivio Storico del Piccolo Teatro fino a quando, dopo quasi settant’anni, è stato preso in mano e completato dal compositore Alessandro Solbiati. Con la regia di Giorgio Bongiovanni, La porta divisoria va dunque in scena.
Non casuale, e men che meno banale, è la profonda connessione che il capolavoro kafkiano ha con la vicenda personale sia di Strehler sia, soprattutto, di Carpi. Entrambi avevano vissuto la guerra e i suoi orrori, affrontandoli, nel caso del compositore, in prima persona. Fu Carpi, infatti, a scegliere il soggetto dell’opera, i suoi temi principali. La famiglia di Fiorenzo Carpi fu vittima di persecuzioni razziali in quanto di origine ebraica. I fratelli si unirono alla resistenza e uno di questi, Paolo, appena diciassettenne, venne arrestato e deportato. Il padre, Aldo, pittore e insegnante dell’Accademia di Brera, fu denunciato da un collega e deportato nel campo di concentramento di Gusen-Mauthausen, dal quale ritornò un anno più tardi, alla fine della guerra. Il diario e gli schizzi tenuti da Aldo Carpi durante la sua detenzione offrono una testimonianza forte della tragedia vissuta, che ebbe un profondo impatto su Fiorenzo. Come racconta la figlia, Martina, Fiorenzo Carpi iniziò a lavorare all’opera nel 1954, quando «arrivò la notifica della morte di suo fratello avvenuta nove anni prima in un campo di concentramento». Per tutto questo, forse, la scrittura delle musiche per un’opera che parla di disumanizzazione e non-accettazione del diverso fu da lui così sentita e complessa.
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Cosa racconta «La porta divisoria»
Sulla scia del lavoro brechtiano e pirandelliano, quella che porta avanti Strehler nell’arco di tutta la sua carriera è un’indagine sull’uomo, le sue sfaccettature, come individuo unico parte di una società complessa.
Allo stesso modo, la musica che Carpi compone per l’opera è un insieme vivo di influenze sperimentali, come la dodecafonia, la musica atonale e quella concreta. Carpi fu, come il suo amico regista, un punto di riferimento saldo e straordinario dell’ambito artistico del secondo Novecento, ancora oggi ricordato e ammirato.
La scena è tagliata orizzontalmente a metà da una sottile rete semitrasparente. Il protagonista della storia, Gregorio, colui che subirà la trasformazione e il conseguente allontanamento da parte della famiglia, si posiziona al di qua di questa sorta di sipario, dunque dalla parte del pubblico. Gli altri personaggi invece, la sua famiglia, sono al di là del divisorio, separati, lontani da colui che non comprendono e non riconoscono più. Al centro si trova una porta, quasi sempre chiusa, che non dà la speranza di un possibile avvicinamento ma, anzi, sottolinea l’assurdità della situazione. Gregorio è reietto come ognuno di noi, che in qualche momento della nostra vita ci siamo sentiti e ci sentiamo diversi e incompresi. Allo stesso tempo, però, la parete sottile si fa permeabile e lascia intuire che una separazione netta, una presa di distanza dal comportamento ottuso, discriminatorio e, infine, violento di coloro che sono dall’altra parte non è possibile.
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Il lavoro di Strehler e Carpi racconta ciò che nessuno vorrebbe ascoltare. Con profonda umanità, La porta divisoria mette in scena, paradossalmente, il diverso dall’umano e la repulsione violenta nei confronti di esso, la sua emarginazione. Ma l’opera parla anche, e rende evidente nella scenografia, un problema ancora più grande, che è origine e conseguenza di questo dolore: l’incomunicabilità. Musica, canto, scene, luci danno vita e volto alle inquietudini esistenziali dell’uomo che aveva, pochi anni prima della composizione, assistito con orrore e paura alla distruzione dell’umanità stessa.
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