Lord Palmerston (1784-1865) diceva che l’Inghilterra non aveva eterni amici o nemici, bensì eterni interessi. Per gli Stati Uniti, invece, è sempre stato più complicato indicare quali fossero i propri vitali obiettivi, le ragioni per cui valesse la pena agire. Lo si vede dal frenetico movimento delle sue politiche estere, che per decenni, passando per numerosi segretari di stato e presidenti, ha modificato fini, mezzi e narrazione. Così, gli USA sono stati un paese fortemente idealista, come presentato da Thomas Wilson e da Franklin Roosevelt, ma anche imperniati sulla Realpolitik sotto Richard Nixon e il suo segretario di stato Henry Kissinger. Per questo motivo, gli Stati Uniti d’America si sono visti rinfacciare anche il peggio di questi due poli: impositori di un ordine idealistico e ipocrita da una parte, brutali e freddi imperialisti dall’altra. Tralasciando se tali opinioni siano verosimili o giustificate, resta spesso adombrato un capitolo della storia americana, o un modo di fare politica estera, che non sta in quelle due definizioni e che resta ancora piuttosto popolare in certi ambienti di Washington, e a cui, forse, l’amministrazione Joe Biden si è tacitamente ispirata: la politica di Jimmy Carter.
Jimmy Carter arrivava al campidoglio nel 1977, dopo le complicate presidenze di Gerald Ford e, soprattutto, Richard Nixon, che dovettero affrontare la crisi economica successiva alla fine del boom e lo scioglimento del regime di Bretton Woods, così come la sconfitta nella guerra del Vietnam. Jimmy Carter aveva dunque a che fare con un paese che aveva perduto una parte della propria identità, messa in discussione sia nel proprio ruolo di locomotiva economica del mondo, che nel mito dell’imbattibilità bellica. Si trattava anzitutto, per parte sua, di rimediare alla situazione corrente con un drastico cambio di linea, alla ricerca di un’identità “nuova” che facesse leva su interessi fondamentali e, soprattutto, nuovi modi di agire.
Pensare la politica estera: Kissinger e Carter a confronto
Nella stagione precedente, la politica estera statunitense si era sovrapposta alla visione di uno dei più influenti, o forse il più influente, segretari di stato della propria storia: Henry Kissinger. Kissinger era un realista e credeva che la politica internazionale si basasse sui rapporti di forza degli stati; credeva, inoltre, che l’unico sinonimo efficace di pace fosse “equilibrio”. A Henry Kissinger, dunque, importava poco dell’ideologia dei suoi avversari, tanto meno di quella dei propri alleati. La sua unica preoccupazione era quello di formare un equilibrio globale quanto più securitario possibile: perciò, era utile installare regimi militari in America Latina per tenere intatte le sfere di influenza e lo status-quo, ma lo era anche avere rapporti diplomatici senza precedenti con la Cina comunista in funzione anti-sovietica, ritirarsi dal Vietnam e trattare un armistizio che salvi le forze arabe contro quelle israeliane. Questo agire subdolo e machiavellico (o meglio, machiavelliano) gli sono costati l’appellativo di “Metternich del XX secolo”, dal cancelliere austriaco di cui, per altro, il segretario di stato si era così tanto interessato in gioventù. Ciò che Henry Kissinger ignorava, però, era forse che la politica à la Metternich non si concordasse fondamentalmente con quello che da sempre era stato il modo americano di fare politica estera. O almeno, con quello che da sempre era stato inteso come il modo di fare da una certa parte, preponderante, della classe dirigente americana: in fondo, l’egemonia statunitense era nata proprio in contrasto con il concetto di diplomazia europea, che già Thomas Wilson e poi Franklin Roosevelt avevano rifiutato, a cui poi la politica di Henry Kissinger, di pari passo con una percepita crisi, voleva rifarsi, credendola un corretto farmaco all’anarchia internazionale e all’affanno americano nel mondo.
Jimmy Carter era consapevole di queste due anime della politica estera americana e nella sua amministrazione rimasero, in una nuova sintesi, sia quel tratto realista che lo portarono a prendere compromessi e a fare interventi armati decisi, sia quel tratto idealista che lo videro opporsi alle derive imperialiste della sua nazione e proporsi come campione di alcuni ideali. In prima istanza, la sua linea politica in America Latina cambiò in modo vistoso da quella di Richard Nixon e Bretton Ford: sotto la sua amministrazione, il rapporto con i regimi di Augusto Pinochet (Cile), Jorge Rafael Videla (Argentina) e Ernesto Geisel (Brasile) si raffreddarono dai picchi di supporto riscontrati nei primi anni Settanta, un mutamento che avrebbe portato, di lì a qualche anno, alla loro crisi. Jimmy Carter, inoltre, giunse alla stipula del trattato di Panama del 1977, in un duro braccio di ferro col congresso: il patto accordava che gli USA avrebbero ceduto il controllo del canale (che detenevano dal 1903) allo Stato di Panama. La prospettiva di un cambio di passo metteva in chiaro anzitutto un obiettivo: se l’America vuole uscire dalla propria crisi, deve tornare a vedersi credibile; dunque, deve capire perché combatte. Analogamente, la credibilità deve passare attraverso anche la fiducia nella propria forza e la volontà di opporsi o reagire con fermezza qualora ce ne sia bisogno. Perciò, è auspicabile che si firmino accordi per il disarmo nucleare, come fu per la stipula del SALT II nel giugno 1979, ma ciò non implica che non si possa attuare una dura politica di contenimento all’URSS a seguito della sua invasione dell’Afghanistan pochi mesi più tardi.
Il farmaco della credibilità, che passava per i “perché” si combatta e l’utilizzo confidente di misure drastiche, trovò la sua applicazione maggiore, a fortune alterne, nel teatro medio orientale.
Il Medio Oriente di Carter: Successo o fallimento?
Il Medio Oriente era diventato un problema cruciale: Henry Kissinger aveva tentato di risolverlo attraverso un compromesso, costringendo Israele – che nel 1973 stava per annientare l’esercito egiziano – a fermare le operazioni belliche. Da quel momento, fino al 1979, tecnicamente le ostilità rimasero congelate, ma non si era arrivati ancora a una pace tra le due parti. Jimmy Carter, dal canto suo, aveva la percezione che il Medio Oriente fosse di vitale importanza per gli USA e che il suo teatro andasse stabilizzato il prima possibile. Per conseguire questo obiettivo, però, il presidente democratico e il suo entourage dovevano vedersela con uno scenario politico radicalmente nuovo, sia in Israele che in tutto il Medio Oriente. Nel ’77, infatti, era diventato primo ministro di Israele Menachem Begin, primo capo di governo appartenente al partito del Likud. Begin non era una personalità politica di secondo ruolo: era stato al centro della storia di Israele sin dalla sua fondazione, facendo parte dell’Irgun e del Lehi, le formazioni paramilitari sviluppatesi come ali armate di quello che divenne il partito Likud. Queste formazioni, del resto, provenivano dall’ampissimo retroterra ideologico capeggiato dal sionismo revisionista di Vladimir Zeev Jabotinsky, rivale dell’ideologia socialista che governò Israele nella sua prima fase. I seguaci di Jabotinsky, tra cui c’erano numerosi futuri Capi di Stato come Yitzhak Shamir e, appunto, Menachem Begin, avevano intravisto, nei successi militari impressionanti che si susseguirono tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, la possibilità di una vittoria totale contro i nemici arabi e la concreta formazione di un Grande Israele, che però Jabotinsky aveva solo vagheggiato quando ancora il paese era piccolo e debole ed era prioritaria una politica difensiva. Per questo motivo, Menachem Begin osteggiava grandemente la restituzione del Sinai all’Egitto o di qualsiasi altro territorio occupato. Dall’altra parte, tra il ’78 e il ’79, il Medio Oriente era stato scosso dal cambio di regime in Persia, dove la rivoluzione islamica s’era affermata spodestando la monarchia filostatunitense dello shah. L’evento fu considerato una sconfitta strategica degli Stati Uniti, che non riuscirono a prevedere e contenere la compromissione di una regione cruciale come quella iraniana. Visti i presupposti, Jimmy Carter aveva buoni motivi per credere, anche a fronte dell’invasione sovietica in Afghanistan che sarebbe iniziata di lì a pochi mesi, che gli Stati Uniti dovessero centrare molte delle proprie attenzioni sul Medio Oriente, regione politicamente periferica rispetto alle grandi potenze, ma paradossalmente cruciale.
La questione israeliana doveva essere risolta piegando la resistenza interna alla politica di Tel-Aviv: del resto gli Stati Uniti avevano mediato favorevolmente rispetto all’Egitto già con Kissinger, che aveva fermato in extremis le operazioni israeliane quando queste avevano varcato Suez durante la guerra dello Yom Kippur. Nel 1977 l’amministrazione Carter aveva manifestato insoddisfazione riguardo la politica di Menachem Begin, quando Israele aveva usato mezzi di fornitura americana per operazioni nel Libano del sud. In quel momento, Jimmy Carter minacciò la cessazione del fornimento di altro materiale, cosa che costrinse Begin ad accettare le condizioni americane e, dunque, il ritiro. Nonostante la pressione interna, generalmente solidale con Israele, Jimmy Carter credeva che gli Stati Uniti avessero la capacità di portare Tel-Aviv a una pace. Lo testimoniava il fatto che Israele, dagli anni Sessanta, aveva fatto sempre più affidamento sul supporto militare americano, che durante Carter continuò a crescere. Era una forma di compensazione e rassicurazione in vista di una pace compromesso, ma era anche un modo per accrescere il potere contrattuale statunitense nei confronti delle politiche israeliane. Confidente di questa posizione, a torto o a ragione, Jimmy Carter fondò la necessità di un accordo su due assunti: da un lato credeva che l’espansionismo israeliano andasse fermato e che gli USA dovessero aiutare Israele a trovare una nuova strategia di coesistenza con i propri vicini arabi, perché la guerra era un’opzione insostenibile: sia per Tel Aviv che per Washington; dall’altra, faceva valere con forza la priorità delle conseguenze sui principi: non si trattava di pesare le colpe di ambo le parti, ma di tracciare un nuovo inizio; dunque non doveva importare a Israele dei torti subiti dall’Egitto e i suoi alleati, e viceversa, poiché tale dinamica avrebbe portato alla guerra perpetua. In poche parole, era necessario imporre il concetto che una pace avesse maggior valore rispetto a quelle cose che ambo le parti avrebbero ceduto per ottenerla. Naturalmente, tale condizione non avrebbe potuto essere raggiunta se non attraverso la mediazione statunitense e, probabilmente, l’incertezza suscitata nel mondo arabo della questione iraniana. In questo senso, gli accordi di Camp David e la pace del ’79 furono importanti perché funsero da sparti-acque decisivo, assieme alla rivoluzione islamica, tra due medio orienti, uno vecchio e uno nuovo. Un “anno uno” in cui gli equilibri vennero definitivamente stravolti. Da quel momento Israele passava di mano da una classe dirigente fondativa a una nuova, normalizzando i rapporti con i vicini arabi e credendosi capace, confidente delle proprie forze e dello scenario che lo circonda, di poter ottenere attivamente ciò che desidera; dall’altra parte, le monarchie e le repubbliche arabe smisero di vedere in Israele un nemico esistenziale e spostarono il loro timore verso l’Iran. Frutto primo di questa traslazione fu la guerra Iraq-Iran, finanziata dalle monarchie arabe per tentare, prima che fosse troppo tardi, di abbattere la rivoluzione sciita di Teheran. Da quella guerra nacque il Medio Oriente moderno, ossia quello con cui abbiamo a che fare oggi.
Poco più lontano, l’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979 mise ancor più in subbuglio la fascia di terra che corre dalle vette dell’Hindu Kush al mediterraneo orientale. E rafforzò ancor di più nell’amministrazione americana la convinzione che il Medio Oriente andasse considerato come una priorità strategica nazionale, fino ad allora relegato ad area periferica della propria politica estera. Probabilmente, un approccio realista ortodosso, à la Kissinger, avrebbe considerato l’interferenza negli affari sovietici in Afghanistan un errore strategico: è utile lasciare alle grandi potenze aree di esclusiva competenza per il mantenimento dell’equilibrio. Ma Jimmy Carter credeva che un forte intervento non solo fosse possibile, ma anche conveniente. E per farlo, gli USA avrebbero dovuto armare forze di difficile inquadramento pur di avere successo. Fu in quest’ottica che avvenne l’armamento dei Mujahedin, che per dieci anni combatterono le forze sovietiche fino alla loro definitiva ritirata nel 1988. L’alleanza informale con gli insorti islamici, destinati a diventare, di lì a poco, i più grandi nemici degli Stati Uniti d’America inquadrati in Al Qaeda, non si discostava, in fin dei conti, dal modus operandi realista usato in America Latina; eppure, questo strumento non veniva adoperato indirettamente in sfere d’influenza considerate esclusivamente proprie, come faceva Kissinger supportando regimi militari, bensì direttamente contro la potenza da contenere, l’Unione Sovietica. La differenza sussiste non tanto nei mezzi: l’indifferenza nel supportare alcune forze solo perché nemiche dei propri nemici; bensì per la giustezza, e l’utilità, del principio per cui vengono adoperati, ossia non per tenere in piedi uno status quo, ma in aperta risposta a un’azione considerata illecita, ossia l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’impegno anti-sovietico, arrivava parallelamente alle intenzioni di disarmo nucleare, ma di riarmo convenzionale, in uno schema che esemplifica la sintesi di Jimmy Carter del connubio, auspicato ma non del tutto raggiunto, tra intransigenza e moderazione, principio e concretezza.
La prolificità della politica estera nella regione venne, infine, riassunta in quella che sarebbe stata conosciuta come “dottrina Carter”, destinata a influenzare la strategia statunitense in Medio Oriente per decenni. Influenza che dura anche oggi in modo determinante. Il principio è il seguente: gli Stati Uniti trovano nella regione levantina e nei suoi mari, Golfo Persico tra tutti, uno fulcro cruciale della sicurezza nazionale contro i propri rivali. Era, ed è, una dottrina che ricalca la ricorrente ossessione che spinse l’impero britannico, tra il XIX e il XX secolo, a interessarsi del Medio Oriente e le regioni mediane, nel timore che potesse essere recisa la congiunzione vitale del suo impero globale. È chiaro che non fu il solo Jimmy Carter a imprimere questo cambio epocale e che fu la contingenza degli eventi a costringerlo a prendere decisioni senza precedenti. La priorità strategica in Medio Oriente dal 1980 in poi portò gli Stati Uniti a combattervi numerose guerre e a stabilirvisi in maniera costante, seppur ottenendo, forse, il risultato opposto di quello auspicato dalla dottrina Carter: dalla guerra tra l’Iraq e l’Iran la regione conobbe una rapida discesa verso il caos e il superamento, informale, dell’ambiguo ordine statuale nato dopo lo scioglimento dell’Impero Ottomano. L’Iran sconfisse il primo contenimento arabo vincendo la guerra con l’Iraq e quest’ultimo sarà poi invaso dagli USA nel 2003 nel tentativo di esercitare con efficacia la dottrina Carter e tenere sotto controllo la regione medio orientale una volta per tutte. Dall’altro lato, la pace del ’79 fu il preludio a una nuova stagione politica israeliana, in cui il paese avrebbe lasciato il ruolo passivo fin lì impersonato e guadagnando una posizione di forza, un’iniziativa che mantiene tutt’oggi nella sua ristretta regione.
Politica carteriana oltre Carter: Brzezinksi e i giorni nostri
La sintesi che Jimmy Carter fece della politica estera americana ha continuato a proporsi come ponte comunicativo tra le due anime della nazione. Tra quelli dell’entourage di Carter che continuarono ad avere una certa influenza nella politica americana fu il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Zbigniew Brzezinski, che commentò e consigliò sui fatti rilevanti successivi al proprio incarico. Le sue posizioni ricalcano i principi fondamentali di quella particolare politica estera che egli implementò assieme al presidente che serviva. Brzezinski era a favore dell’intervento Nato in Kossovo, nonostante fosse stato contrario a quello in Bosnia. Si oppose ancor più duramente alla politica estera neocon di Bush figlio, considerata alla stregua di una pietra tombale sul destino internazionale americano. Sulla questione ucraina, Brzezinski si era sbilanciato decisamente a favore di un ingresso di Kiev all’alleanza atlantica già prima dell’inizio del conflitto in Donbass. Sulla questione israelo-palestinese, infine, supportò le considerazioni del politologo John Mearsheimer secondo cui la strategia statunitense nei confronti di Tel-Aviv andasse modificata per non compromettere ulteriormente sia la posizione israeliana che quella americana nella regione. Ciò che riemerge da questa impostazione, in continuità con l’amministrazione Carter, è la volontà di smussare i tratti più spigolosi dei due approcci fondamentali nelle relazioni internazionali: prendere decisioni seguendo dei principi, ma non lasciare che i principi dettino tirannicamente le decisioni. In questo senso, il compromesso poteva essere ritenuto migliore della guerra, come nella pace israeliana del ’79, ma altre volte, come nell’invasione sovietica dell’Afghanistan, muovere le armi era considerata un’opzione migliore.
Giunti alla fine dei loro mandati, Joe Biden e il suo segretario di stato Antony Blinken sembrano aver preso ispirazione, seppur forse senza ammetterlo, da chi li hanno preceduti, come Jimmy Carter e Zbigniew Brzezinski. E forse potrebbe essere questo il testimone che Kamala Harris e Tim Walz vorranno raccogliere in caso di rielezione democratica. «Dovremmo guidare non per l’esempio della nostra forza, ma per la forza del nostro esempio» come ha ripetuto alcune volte, negli anni, Joe Biden. In questa frase ci sono i due fondamentali che Jimmy Carter aveva proposto per ricostruire la credibilità e la fiducia della nazione in se stessa: è necessario capire perché si combatta e, poi, avere la confidenza di prendere decisioni dure e affrontarle direttamente alla radice. Muovere le armi per difendere l’Ucraina dalla Russia, Taiwan dalla Cina e aumentare la spesa bellica segue dei principi attraverso misure drastiche; la volontà di indirizzare la politica israeliana a cambiare strategia antepone le conseguenze materiali ai principi, ossia preservare l’ordine a scapito delle ragioni per cui si combatte: è una sintesi alla Carter. Pur tuttavia, così come nelle mani del suo predecessore, anche la politica di Joe Biden non sembra aver ottenuto, almeno fino ad ora, successi decisivi. Il supporto all’Ucraina è efficace ma non sembra sufficiente. La politica interna israeliana sembra impermeabile alle pressioni statunitensi. E a fronte di questi risultati, la politica estera di Joe Biden non sembra aver riscosso, come successe a Jimmy Carter, particolare fortuna tra l’elettorato. Kamala Harris, succedendo al suo presidente, subirà il contraccolpo delle questioni internazionali? Perderà le elezioni come Jimmy Carter contro Ronald Reagan nell’81, quando la sua politica estera non venne, forse in parte, compresa dai suoi contemporanei?
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