Che non sia da giudicare il libro dalla copertina è regola ormai nota, ma ben di rado si riesce a prestarvi fede. Quantomeno quando si abbiano da giudicare omaccioni dalla presenza massiccia e dallo sguardo feroce, magari nascosti dietro una barba folta e capricciosa, di dimensioni che l’occhio fatica ad abbracciare. Sicché parrebbe improbabile, per non dire impossibile, che dietro alla fama di “signore delle taverne” conquistata a suon di sbevazzate fra le birrerie più lerce della Berlino di metà 1800, si nasconda uno spirito angelico, dai dolci sentimenti romantici. Non giudicare il libro dalla copertina, si dirà ammonendo chi abbia l’impressione di scorgere in Karl Marx un uomo tutto birra ed economia. Ma d’altronde è pure comprensibile che si voglia indugiare nel guardarsi bene dal farlo. Marx pareva un diavolo, riportano alcuni suoi contemporanei e compagni di studi.
Lo stesso Engels rimase fulminato dall’aspetto di questi in occasione del loro primo incontro. Tuttavia del buon Marx sappiamo anche della sua “seconda vita”. Sappiamo di lettere infuocate d’amore scritte per l’amata Jenny von Westphalen, fidanzata segreta all’età di 18 anni che 7 anni più tardi diverrà sua moglie. Poesie meravigliose che Jenny stessa custodirà gelosamente e che nascondo il vero volto dell’austero filosofo di Treviri: il tenero sguardo poeta.
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È un amore spassionato quello che Marx nutre per la poesia e non si trattiene di certo dal lasciarne tracce, talvolta ben visibili, talaltra meno, fra l’oceano di pagine composte che ci ha lasciato. Dai Manoscritti del ’44, redatti a Parigi in gioventù, al Capitale, capolavoro di più tarda età. Ebbene sì, anche il Capitale, quel volumone che torreggia fra i mille altri libricciuoli negli scaffali delle librerie, che paiono nascondersi e rimpicciolirsi se posti al fianco di quest’ultimo – anche il Capitale trasuda poesia.
L’eccellente e rigorosa traduzione di Norberto Bobbio dei Manoscritti economico-filosofici del ’44 per Einaudi ci presenta un Marx ancora teoreticamente acerbo ma dalla lucidità e coscienza critica raffinatissime. Conosce perfettamente Hegel, cita e commenta con impressionante acutezza (quando scrive ha 26 anni) pagine della Fenomenologia dello Spirito nonché dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, lavori magistrali e di abissale profondità (e difficoltà) del più grande pensatore idealista tedesco.
A sorprendere è la finezza dei giudizi di Marx rivolti al maestro Hegel e ai finti seguaci (“teologi” li chiama lui) di questi: «avvilupati nella logica di Hegel», «non mostrano una differenza dalla concezione hegeliana neppure nella terminologia, ma anzi la riproducono letteralmente». Marx invece no. Come annuncerà nelle pagine d’introduzione al Capitale, il suo progetto è quello di “rovesciare” Hegel che camminava sulla testa, per farlo camminare sui piedi. Sono sentenze dure, spesso dettate dal sentimento e non fondate, ma che lasciano intravedere i nuclei filosofici dello sviluppo a seguire del pensiero di Marx. Ebbene, intrecciato al confronto serratissimo con Hegel si aggiunge al testo un altrettanto denso confronto con i poeti, antichi e moderni, citati esplicitamente e non. William Shakespeare, Goethe, Arthur Rimbaud, Sofocle e Virgilio, per nominare i casi lampanti; questi sono l’arma segreta del Nostro, chiamati in causa quando Marx guarda in faccia l’alienazione prodotta nell’uomo dal denaro, il suo farsi altro da sé che ne desoggettivizza e frantuma l’essere.
Eh diavolo! Certamente mani e piedi, testa e sedere son tuoi! Ma tutto quel he io mi posso godere allegramente, non è forse meno mio?
Se posso pagarmi sei stalloni, le loro forse non sono mie? Io ci corro su e sono perfettamente a mio agio come se io avessi ventiquattro gambe.
Cosi è Goethe, citato nel testo da Marx, a rispondere dell’insensata idea del borghese che s’illude di possedere ciò che col danaro compra ma non s’avvede che è lui il posseduto nel momento in cui si identifica con ciò che può acquistare. E più oltre sarà lo Shakespeare del Timone di Atene a mostrare che il denaro è la “divinità visibile”, che trasforma tutto nel contrario di tutto, che fa «nero il bianco, brutto il bello, ingiusto il giusto, volgare il nobile, vecchio il giovane, codardo il coraggioso»; è, questa volta con Tito Livio, “meretrix universalis”, volgare prostituta pronta a vendersi per rendere l’uomo il suo contrario. Sarà, più avanti nel testo, Balzac a emergere fra le righe di Marx; il Balzac della Comédie, per il quale il Nostro aveva manifestato una profonda simpatia e affinità intellettuale, consigliando al compagno Engels in una lettera del 1867 di approfondirne la lettura ( i suoi testi, dice, sono “pieni di deliziosa ironia” ).
Allo stesso modo, a più di vent’anni di distanza dai Manoscritti , Marx concluderà la Prefazione alla prima edizione del Capitale con un verso (parafrasato) dell’Alighieri: «segui il tuo corso, e lascia dir le genti». Marx aveva letto Dante e si servirà a più riprese del canto della Divina Commedia lungo il corso del teso. Lo ritroviamo nel Capitolo terzo del Libro primo, relativo alla circolazione delle merci con un verso del XXIV Canto del Paradiso affiancato dai versi dell’Antigone di Sofocle, del Boccaccio ed infiniti altri.
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È d’altronde impossibile voler proporre una rassegna esaustiva dell’immensa mole di componimenti poetici che Marx ripropone al fine di corroborare le rigorose analisi storico-economico-filosofiche che ne fanno una delle menti più alte dell’intero secolo. Bastino questi pochi esempi a mostrare lo spessore intellettuale di Marx accompagnato dalla cultura di dimensioni oceaniche che pare volgere, implicitamente, una critica al metodo stesso dell’analisi filosofica. Metodo che non può e non deve esaurirsi nel mero nozionismo ma accompagnarsi all’ascolto delle voci più profonde che l’ingegno umano abbia prodotto. Anche questo Marx voleva dirci. Come voleva dirci del sentimento poetico che dal profondo ebbe il merito di ispirarlo (oltre ai brevi esempi riportati è sufficiente lasciar parlare la giovanile dissertazione di laurea, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, per sentirsi richiamare continuamente ad un pathos poetico che trova ispirazione nei moti romantici della lirica tedesca d’inizio ‘800).
Che Marx stesso abbia voluto vestire l’alloro poetico per annunciare le contraddizioni del nostro tempo è dunque un’ipotesi da non scartare. Alla pretesa di rigorosa scientificità (come scrive nella Prefazione de Per la critica dell’economia politica, ancora una volta citando Dante : «Sulla soglia della scienza, come sulla porta dell’inferno, si deve porre questo ammonimento: Qui si convien lasciare ogni sospetto ogni viltà convien che qui sia morta») s’accompagna costantemente l’animo del vero poeta, che Marx d’altronde non volle mai abbandonare. Un viaggio dantesco, il suo, soggiornando fra le bolge infernali dell’alienazione capitalistica e della lotta di classe, per riportare alla luce quel sentimento d’umanità e reciproco affetto che l’uomo smarrì alle soglie della Modernità, isolandosi nel freddo individualismo borghese, realtà divoratrice di uomini, ove è la legge del bellum omnium contra omnes a dettare le regole del gioco. Marx volle mostrarci questo, addolcendo il suo triste e crudo messaggio, con la bellezza della poesia.
Giovanni Fava
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