Quando si parla di Pino Pascali si parla di un artista eclettico: di uno scultore, di uno scenografo e di un perfomer, dotato inoltre di una particolare sensibilità verso la cultura mediterranea, quella che appartiene alla sua terra d’origine, la Puglia. Nasce infatti da genitori di Polignano a Mare, la piccola cittadina che nel 2010 ha voluto omaggiare l’artista con un museo a lui dedicato, la Fondazione Pino Pascali, unico museo di Arte Contemporanea stabile in Puglia. L’adolescenza però la trascorre a Bari, dove inizialmente frequenta il Liceo Scientifico ma si rende subito conto che non è quella la sua strada.
La passione per l’arte lo porta in giro per l’Italia: prima si trasferisce a Napoli, dove si diploma al Liceo Artistico ed in seguito, nel 1956 si trasferisce a Roma, per frequentare l’Accademia di Belle Arti. Qui frequenta le lezioni di Toti Scialoja, pittore e poeta italiano, insegnante di numerosi artisti, fra cui Jannis Kounellis che, con Pino Pascali, è stato esponente di quella che nel 1967, in seguito all’esposizione Galleria La Bertesca di Genova in cui erano presenti Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali e Prini, è stata definita da Germano Celant (critico d’arte e direttore artistico) “arte povera”.
Il movimento, che si contrappone a quella che è l’arte tradizionale, utilizza (come suggerisce il nome) materiali poveri, come la terra, legno, ferri e stracci presentati soprattutto sotto forma di installazioni che si relazionano con il luogo, generando dunque un’azione performativa. Importante è inoltre sottolineare che il termine “arte povera” si rifà al termine “teatro povero” di Jerzy Grotowski, regista teatrale polacco e figura di spicco dell’avanguardia teatrale del Novecento, che sosteneva l’eliminazione di tutto ciò che non era necessario, con l’obbiettivo di rafforzare il rapporto dell’attore con il pubblico.
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Successivamente, conclusi gli studi accademici, Pino Pascali inizia a farsi notare come scenografo e firma un contratto come aiuto scenografo per la Rai, per la quale realizzò disegni e “corti” per Carosello e altre trasmissioni tv dell’epoca. Dopo aver partecipato a numerose mostre collettive, nel 1965 realizza la sua prima mostra personale, presso la galleria romana La Tartaruga ed in soli tre anni, riesce ad attirare l’attenzione dei maggior critici d’arte italiani e anche quella di galleristi. Ciò gli permette, nel 1968 (stesso anno in cui muore tragicamente all’età di 33 anni), di partecipare su invito e con una sala personale alla XXXIV Biennale di Venezia, dove, dopo la sua scomparsa, gli è stato conferito il Premio internazionale per la Scultura.
Le opere di Pino Pascali e la loro poetica dal 1956 al 1968
All’Accademia di Belle Arti di Roma, Pino Pascali studia coloro che sono i padri dell’espressionismo astratto americano, ossia Pollock, Gorky e De Kooning da cui ne rimane sin da subito affascinato. Inoltre, l’idea dell’utilizzo di materiali inusuali lo attira. Inizia quindi a sperimentare con le latte, il cuoio, il metallo e a dipingere su lamiere di zinco, legno e metalli, realizzando fra il 1956 e il 1960 pannelli che hanno come soggetti fucili, pistole e navi. Anno fondamentale è il 1964: alla Biennale di Venezia arriva la Pop Art americana e Pino Pascali tenta di rielaborare i temi e i soggetti in versione italiana e personale. Tra il 1964 e il 1965 crea dunque pitto-sculture in cui sono presenti frammenti anatomici di corpi femminili ingigantiti, un modo per rimarcare la finzione dell’arte.
Nel 1965 ritorna il tema delle armi (di cui ne è un appassionato), crea infatti sculture di grandi dimensioni realizzate assemblando rottami. Costruisce cannoni, bombe, mitra, quasi in scala reale, ma in chiave ironica. Pascali ironizza sulla guerra, sul “giocare a fare i soldatini”. Le armi portatrici di morte, realizzate con materiali di scarto, perdono la loro importanza e ciò crea un nuovo concetto di scultura, un nuovo linguaggio ricco di ambiguità.
Nel 1967 arriva quella che si può definire la seconda fase della sua carriera, legata per lo più agli animali e alla natura, vista come un qualcosa di puro, in cui è evidente un richiamo alla sua terra d’origine, al Mar Mediterraneo, alle sue radici, una fase un po’ più “bambinesca”. In quest’occasione sperimenta con la terra e con l’acqua, realizza opere come 32 mq di mare circa, vaschette di zinco piene di acqua, ognuna con delle variazioni dei toni del colore del mare o 1 mc di terra, 2 mc di terra, due parallelepipedi in legno rivestiti di terra. In Botole o Lavori in corso, opera della serie “elementi naturali”, elementi primari come acqua e terra sono inserite all’interno di quattro pannelli quadrati ricoperti da mattonelle di eternit in cui l’artista ci “parla” delle problematiche della società dei tempi, dello sviluppo della tecnologia e dell’urbanizzazione, temi in quegli anni (soprattutto con l’avvicinamento del 1968) fortemente sentiti.
L’anno dopo, arriva quella che è stata l’ultima mostra per l’artista, la Biennale di Venezia del 1968, una biennale molto particolare che si è svolta in un periodo di proteste seguite anche da atti violenti, dove presenta una serie di opere di grandi dimensioni: Le penne di Esopo, Tela di Penelope, Solitario, Ponte levatoio, Liane, Cesto, Pelo e Contropelo. Le opere, realizzate principalmente con lana e ferro, costituirono uno spazio sereno in cui si condensava tutta la poetica di Pino Pascali, offrendo al pubblico la possibilità di immergersi completamente in esse.
immagine in evidenza: foto di Claudio Abate
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