«È come se questo poeta possedesse il segreto della mia anima» scrive Luis Aragon in prefazione a Pietre, ripetizioni, sbarre. Il poeta è Ghiannis Ritsos e l’anima è quella universale che solo la poesia sa far vibrare. Non è un azzardo affermare che, qualora ci si trovi davanti a versi potenti, di una semplicità limpida eppure spiazzante, il senso che ne deriva è quello di una comunione di anime che nonostante il tempo, lo spazio e gli anni, si trovano unite nello stesso respiro. La poesia che supera i limiti, rompe gli argini e parla per bocca del poeta al cuore del mondo.
Aragon è chiaro e forse inconsapevole rappresentante del sentimento comune, testimone autorevole che, con parole senza dubbio calibrate, si fa portavoce delle emozioni del lettore di Ritsos, del suo sentirsi dentro ai versi poetici. Quando afferma che:
Forse ho raggiunto un’età in cui gli occhi si sono inariditi per sempre, come fiori secchi schiacciati tra le pagine di un libro. Forse ho dimenticato…ma credo che mai dei versi, per quanto belli, per quanto commoventi fossero, mi abbiano fatto piangere.
È la voce del lettore a parlare, la sua gola a inaridirsi, i suoi occhi a velarsi di pianto. Perché quello di Ritsos non è solo un canto di speranza e giustizia in grado di far vibrare, all’unisono, le corde della grecità, ma è richiamo universale ed emozione per tutti. Nei suoi versi in Pietre, ripetizioni, sbarre si percepisce la solitudine del mondo, la volontà di non piegare la testa, la vita, bruciante, anche quando il buio sembra imperare.
Leggere le raccolte di Ritsos (perché di tre si tratta) a partire dalla prefazione non è semplice precauzione ma esercizio necessario, perché quel cammino che Ritsos traccia – un sentiero dell’uomo, per l’uomo, verso un destino “altro” – è percepibile, paradossalmente, a partire dagli effetti, da ciò che la lettura provoca a un estraneo, lontano dalla situazione in cui i versi nascono, estraneo alla cultura, al tempo e alla storia.
«L’arte di Ritsos è oltre le definizioni» continua giustamente Aragon e allora cerchiamo di non inscatolarla in categorie limitanti, lasciamo che vaghi libera di bocca in bocca, di libro in libro. I suoi testi, forse, sono i più adatti ad essere lasciati “sospesi”, come il caffè napoletano che qualcuno ha già pagato per te, come il bookcrossing che anima gli spazi grigi di alcune città. Le poesie di Pietre, ripetizioni, sbarre andrebbero appese sui muri, nelle bacheche delle università, fuori dai cancelli delle scuole per far risuonare il loro grido, la dignità che portano con sé. Solo così, realmente, la poesia può superare le barriere che le convenzioni hanno creato.
E partire da Ritsos per iniziare un percorso del genere è una sfida ma anche un dovere, perché da paladino della libertà ha saputo parlare al mondo attraverso il canto umiliato del poeta ferito, detenuto politico nell’isola di Leros le cui pietre – quelle del titolo – si conficcano come spuntoni nei pensieri di chi vede la propria patria umiliata, con gli intellettuali impossibilitati ad esprimersi liberamente. Le torture, i maltrattamenti fisici e psicologici sono un urlo di denuncia raccontato con dignità, con quello stile prosastico che sempre lo caratterizza:
Caduto lì, bocconi; il mento nella terra; il collo / serrato tra i ginocchi dell’altro; – quasi cianotico; le vene gonfie sulle tempie. Immobile. / Un movimento; – l’estremo spasmo? Chiudi gli occhi. No, no». Il desiderio della libertà è un inno alla vita, oltre le fatiche e gli impedimenti: «Pietre, pietre scorticate fino in cima. / Accanto, nel basso fondale, s’udì / il secondo, il terzo salto d’un pesce. / Immensa, estatica orfanezza – libertà.
E ancora la memoria, l’importanza che questa ha per un popolo, per il singolo, si impone come mito al centro di riflessioni in forma di versi, con il ritmo che da affannoso diventa piano come le dita che scorrono su un pianoforte:
Ripetizioni – dice, – ripetizioni senza fine; – che stanchezza mio Dio; / tutto il mutamento è solo nelle sfumature – Giasone, Odisseo, Colchide, Troia, / Minotauro, Talo, – e proprio in queste sfumature / tutto l’inganno e la bellezza a un tempo – opera nostra». Immagini mitologiche che si sovrappongo alla realtà, per sfuggire alla censura, certo, ma anche per esprimere quanto di universale ci sia nell’esercizio del tempo ricordato. Tristezza e delusione, amarezza nel vedersi strappata la propria libertà. Il pessimismo per le notizie che arrivano dalla patria, gli arresti degli oppositori, gli interrogatori, le torture, sono immagini trasposte su carta con la durezza di chi ha il cuore spezzato ma continua a combattere: «Ore difficili, difficili per il nostro Paese. E lui, fiero, / nudo, indifeso, debole, lasciò che lo aiutassero; / hanno fatto ipoteche su di lui; accampano diritti, esigono; / parlano in sua vece; gli impongono il respiro, il passo; / gli fanno l’elemosina; lo rivestono con altri abiti troppo larghi e cadenti, gli legano una cima ai fianchi.
Ma il tono duro, disincantato, si fa solenne quando ancora, dal profondo dell’abisso, il poeta trova la forza per risalire:
Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure / quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo, / è divampato tutto fino all’inferriata, – mille rose, / mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi – / viola, arancione, verde, rosso e giallo, / colori – colori-ali; – tanto che la donna uscì di nuovo / a dare l’acqua col suo vecchio innaffiatoio – di nuovo bella, / serena, con una convinzione indefinibile.
È la primavera, segno di rinascita esterna e interiore. I fiori sbocciano, i colori divampano e una donna torna solare, splendida, dopo il periodo ghiacciato dell’inverno. È un nuovo inizio, un inno alla speranza, l’invito a sperare dopo tanto soffrire.
Un ritorno alla vita, per Ghiannis Ritsos perseguitato, per la Grecia dilaniata, per noi assuefatti all’abitudine del tempo. Oltre ogni prigione, vera e interiore.
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