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Inattuale e sempre attuale: Pier Paolo Pasolini e la critica alla modernità

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8 minuti di lettura

Una industrializzazione travolgente ha operato una mutazione antropologica negli italiani. La riflessione politica di Pier Paolo Pasolini però non si limita solo all’aspetto passivo di denuncia, bensì tratteggia i contorni di una modernità diversa, in grado di coniugare sviluppo e progresso.

L’in-attualità di Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini è uno di quegli intellettuali che può rientrare a buon titolo nella categoria degli autori perennemente inattuali proprio in virtù della loro costante, disperata e terribile attualità. Nato nel 1922 a Bologna e cresciuto fra il capoluogo emiliano e la materna Casarsa della Delizia, in Friuli, il suo ingresso sulla scena culturale italiana risale al 1942, quando, ventenne, pubblica Poesie a Casarsa, la sua prima raccolta poetica in lingua friulana. Sempre il ’42 è l’anno in cui la famiglia di Pasolini decide di trasferirsi definitivamente da Bologna a Casarsa, in cerca di riparo dalla guerra.

È in questo periodo che l’eros fa irruzione nella vita del giovane Pier Paolo, rimanendovi per sempre come uno dei grandi filoni centrali che attraversano la sua intera produzione. Al termine della guerra, nonostante l’uccisione del fratello Guido, partigiano, ad opera di altri partigiani (titini), Pasolini aderisce al Partito Comunista Italiano, diventandone anche dirigente locale. Quello della politica, in particolare del comunismo, è un altro fil rouge in tutta la produzione pasoliniana, anche dopo che Pasolini nel 1949 viene espulso dal Partito (e allontanato dalla scuola in cui allora insegnava) in seguito allo scandalo, primo di una lunga serie, legato alla sua omosessualità, da poco scoperta.

Nel 1950 Pier Paolo Pasolini si trasferisce a Roma, con la madre Susanna, cercando di costruire una nuova vita. Roma sarà la sua città sino alla tragica fine della sua vita, a Ostia il 2 novembre 1975, e il suo nome resterà per sempre indissolubilmente legato a quello della Città Eterna.

Gli anni ’50 sono quelli de La meglio gioventù, de Le ceneri di Gramsci e de L’usignolo della Chiesa Cattolica per quanto riguarda la poesia, ma sono anche gli anni in cui Pasolini si affaccia alla narrativa, con gli immortali romanzi Ragazzi di vita (acquista) e Una vita violenta (acquista). Il decennio successivo invece è quello della scoperta del cinema e dei primi esperimenti da regista e il cinema diventerà la sua nuova, grande passione e ossessione.

Accattone e Mamma Roma sono annoverati, a ragione, fra i capolavori del cinema neorealista italiano, ma anche gli altri suoi film hanno fatto scuola, da Il vangelo secondo Matteo a Uccellacci e uccellini, da Edipo Re a Medea, dalla “Trilogia della vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte) a Salò o le 120 giornate di Sodoma, primo capitolo di una progettata “Trilogia della morte” mai compiuta. Senza dimenticare i suoi cortometraggi e i suoi documentari.

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Realtà e mito. Questi sono i due termini, estremi e opposti, della poetica dell’autore, anche se a ben vedere non costituiscono che due facce della stessa medaglia: infatti il mito fa il suo ingresso nella produzione pasoliniana allorquando la realtà perde di ogni poesia. Le ragioni per cui questo accade è quanto analizzeremo ora.

La mutazione antropologica e la critica al consumismo

Per fare ciò, è necessario scomodare due testi fondamentali che costituiscono le chiavi di accesso al pensiero politico di Pasolini. Si tratta degli Scritti corsari (acquista) e delle Lettere luterane (acquista), raccolte degli articoli giornalistici scritti da Pasolini negli ultimi anni della sua vita, dal 1973 al ’75, per le maggiori testate nazionali. L’argomento principe di questi scritti è la feroce critica al consumismo e la drammatica denuncia di quella che lui definisce la “mutazione antropologica” che vede in corso negli italiani, come conseguenza del boom economico avvenuto nel Belpaese tra gli anni ’50 e ’60.

In questi articoli Pier Paolo Pasolini parte dall’osservazione empirica della realtà e di alcuni suoi dettagli, per poi allargare lo zoom fino a cogliere quelle che – a suo avviso – sono le leggi socio-antropologiche in gioco. Dovendo per necessità sintetizzare, possiamo affermare che per Pasolini la diffusione del consumismo – determinato dal cambiamento nei modi di produzione conseguente al boom economico – ha causato una mutazione antropologica negli italiani, la quale è un fenomeno di omologazione culturale totale e di conseguente genocidio culturale. In altri termini: le culture particolari, regionali, tramite la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazione, vengono travolte e distrutte da una nuova cultura omologatrice, edonistica e neo-laica, che provoca un radicale mutamento negli usi e nei costumi, nelle pratiche di vita, degli italiani.

Questo cambiamento è riscontrabile secondo Pasolini in una dimensione linguistica, in una dimensione etica e in una dimensione estetica. Questa nuova cultura consumistica che si impone si configura in ultima analisi come una dittatura, cioè – nel linguaggio pasoliniano – come un nuovo fascismo, ancor più totalizzante e repressivo del “fascismo storico”. Insomma: la mutazione antropologica è la sostituzione della varietà di culture particolari italiane con un’unica cultura omologatrice e totalizzante ad opera del “Potere” consumistico.

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Pier Paolo Pasolini era un reazionario?

Sulla scorta di questa feroce denuncia – sviluppata con toni drammatici, in quanto Pasolini vede scomparire quel popolo che ha amato realmente, nella carne – una critica superficiale si è spesso accontentata di restituire l’immagine di un Pasolini reazionario e nostalgico della cultura contadina e pre-industriale, travolta dall’inesorabile incedere di una industrializzazione forzata. Questa lettura non è certo errata e trova anzi infiniti punti di sostegno negli scritti pasoliniani, anche precedenti agli anni ’70. Tuttavia questa lettura, sebbene non errata, è sicuramente incompleta, poiché non considera assolutamente quei (pochi, per la verità) passaggi in cui Pasolini esprime una visione propositiva, non solo una critica distruttiva. In particolare, noi offriremo un’interpretazione radicalmente diversa del pensiero politico del nostro autore: Pasolini non è un reazionario, ma ha invece immaginato una modernizzazione diversa da quella che ha effettivamente avuto luogo.

Un primo step necessario per chiarire questa nostra interpretazione è mettere in evidenza da subito il fatto che Pasolini non è critico verso la modernità tout court, bensì verso la specifica forma di modernizzazione che ha investito l’Italia del boom economico. Come scrive infatti Pasolini nel celebre L’articolo delle lucciole,

«questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima “unificazione” reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone, con una certa logica, alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale»

[Scritti Corsari, Garzanti 2008, p. 131].

La peculiarità del caso italiano allora è che l’industrializzazione non procede per gradi successivi, bensì prorompe in un contesto culturale ed economico ancora essenzialmente arcaico, totalmente sprovvisto degli anticorpi sociali necessari a fronteggiare il repentino aumento reddituale e la conseguente esplosione dei consumi. Ciò che ne consegue, agli occhi di Pasolini, è una sorta di nevrosi collettiva al consumo e il rapido disgregamento delle forme culturali precedenti, senza che nuovi modelli siano pronti a fornire un quadro di riferimento morale in grado di guidare l’azione e di attenuare il drastico mutamento nello stile di vita. Insomma, quello che Pier Paolo Pasolini vede crearsi è un drammatico vuoto valoriale. Questo non significa necessariamente che l’autore rimpianga i valori perduti, bensì egli denuncia la mancanza di nuovi valori di riferimento e il caos sociale che ne consegue [cfr. La droga: la vera tragedia italiana in Lettere luterane, Garzanti 2009, pp. 97-104].

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Potrebbe bastare già solo questo per screditare la lettura reazionaria e nostalgica di Pasolini, ma prenderemo ora in esame un altro scritto fondamentale, sebbene spesso scarsamente considerato, che chiarirà una volta per tutte il nostro punto di vista. Anche questo scritto è contenuto negli Scritti corsari ed è rimasto inedito fino al suo inserimento nella raccolta. Il titolo assegnatogli da Garzanti è abbastanza banale, ma in realtà anche esaustivo: Sviluppo e progresso. È in questo breve testo che emerge in tutta la sua limpidezza la pars construens del pensiero politico di Pasolini e per questo merita di essere preso in esame più approfonditamente.

«La parola “sviluppo” ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. Chi vuole infatti lo “sviluppo”? Cioè, chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? È evidente: a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo “sviluppo”, in Italia, è questo sviluppo, sono nella fattispecie gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo “sviluppo” (questo “sviluppo”). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”. La “massa” è dunque per lo “sviluppo”: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita. Chi vuole, invece, il “progresso”? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare, appunto, attraverso il “progresso”: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è dunque sfruttato. Quando dico “lo vuole” lo dico in senso autentico e totale […]. Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una “sincronia” tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile […] un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo».

[Sviluppo e progresso, in Scritti Corsari, cit., pp. 175-176].
pier paolo pasolini
Pier Paolo Pasolini. Fonte: Wikipedia

Ripensare lo svillupo

Gli spunti di riflessione presenti in queste poche righe sono pressoché infiniti ed è incomprensibile la scarsa considerazione riservatagli da una parte consistente della critica. Le due nozioni centrali sono, appunto, quelle di sviluppo e di progresso, dove alla prima Pasolini attribuisce un significato economico (incremento della produzione di beni), mentre alla seconda un significato ideale e politico (il riscatto delle classi subalterne).

Così come può esistere un progresso non accompagnato dallo sviluppo (Pasolini fa l’esempio dell’Urss: Lenin, una volta vinta la rivoluzione – ottenuto dunque, nell’ottica pasoliniana-marxista, il progresso – ha dovuto porre le basi per lo sviluppo materiale), può esistere anche uno sviluppo senza progresso e secondo l’autore questo è proprio il caso dell’Italia del boom economico: all’esplosione dell’industrializzazione e all’aumento dei redditi non fa da contraltare un salto in avanti sul piano culturale e sociale. La mancata sincronia tra sviluppo e progresso secondo Pasolini è quindi il nocciolo fondamentale dei problemi conseguenti alla mutazione antropologica.

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Emerge quindi la parte costruttiva del pensiero pasoliniano: è necessario ripensare drasticamente il modello di sviluppo capitalistico, cosicché si possano gettare le basi anche per il progresso. Nonostante tutto, queste annotazioni di Pasolini non sono scomparse con il suo autore. Solo qualche anno più tardi sono diventate programma politico, influenzando enormemente la nozione di austerità elaborata da Enrico Berlinguer nel 1977.

Appare del tutto evidente allora quanto la critica alla modernità da parte di Pier Paolo Pasolini non sia tanto un voler tornare ai bei tempi che furono, quanto immaginare una modernità, se non migliore, almeno diversa. È probabile che, se solo fosse vissuto più a lungo, Pasolini avrebbe avuto modo di raffinare ulteriormente le sue intuizioni, ancora oggi drammaticamente attuali.


Immagine in copertina: Pier Paolo Pasolini in visita alla tomba di Gramsci. Fonte: Wikipedia

 


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Michele Castelnovo

Classe 1992. Laureato in Filosofia. Giornalista pubblicista. Direttore di Frammenti Rivista e del suo network. Creator di Trekking Lecco. La mia vita è un pendolo che oscilla quotidianamente tra Lecco e Milano. Vedo gente, scrivo cose. Soprattutto, mi prendo terribilmente poco sul serio.

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