Per Pessoa non servono parole

Robert Wilson porta in scena la poetica di Fernando Pessoa in uno spettacolo che fonde luci, dimensioni oniriche e le molteplici identità del poeta portoghese

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Una produzione internazionale, attori di diversi Paesi, quattro lingue e un regista che è maestro sulla scena teatrale e artistica da oltre cinquant’anni. Sono ingredienti vincenti quelli messi in gioco da Pessoa – Since I’ve been me, spettacolo di Robert Wilson ispirato all’enigmatica figura del poeta portoghese Fernando Pessoa. In scena dal 6 al 9 febbraio al Teatro Sociale di Trento, lo spettacolo è commissionato e prodotto da Teatro della Pergola di Firenze e Théâtre de la Ville di Parigi, con coproduzione di numerose realtà europee.

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Fernando Pessoa e i suoi eteronimi

Nato a Lisbona nel 1888, cresciuto in Sudafrica, Fernando Pessoa ritorna all’inizio del secolo breve in un’Europa culturalmente viva e dinamica. Questi spostamenti hanno portato lo scrittore a vivere in contesti molto differenti tra loro, il che ha contribuito a generare in lui un senso di dissociazione, scomposizione, che trova nella letteratura lo sfogo più evidente. È infatti tramite le sue scritture che Pessoa dà vita ai diversi lati della sua personalità e della sua persona, facendo emergere quelli che lui stesso definisce “eteronimi”. Figura poliedrica, misteriosa e sperimentatrice, Pessoa è la voce di un’epoca composta da luci brillanti e, di conseguenza, ombre molto oscure. Il poeta racconta l’angoscia, lo smarrimento, l’inquietudine dell’uomo novecentesco tramite versi divenuti immortali e che nello spettacolo si fanno protagonisti oltre gli attori.

Pessoa
ph. Filippo Manzini

I personaggi che popolano la scena di Pessoa – Since I’ve been me, infatti, più che eteronimi sono maschere, ripetitori, animatori di un insieme drammaturgico e poetico molto più grande di loro e che non necessita di identità, solo di narratori. Un verso, nello specifico, ricorre diventando quasi una nenia nel corso della messa in scena: I know not what tomorrow will bring (Non so cosa porterà il domani). Queste, pare, le ultime parole pronunciate dal poeta prima di morire a 47 anni per problemi epatici causati dall’alcolismo che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Queste sono le parole capaci di raccogliere la ricerca di una vita.

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Come racconta il co-regista Charles Chemin, per lo spettacolo è stata elaborata una drammaturgia che unisce e mescola versi e parole che siano in grado di raccontare la pluralità dei sé che hanno costituito l’opera di Pessoa e ne hanno animato l’esistenza.

Tra luci e colori, arte performativa e visiva

Lo spettacolo inizia con l’incipit di un testo giovanile dell’autore che rappresenta una chiave per leggere tanto la messa in scena quanto la poetica di Pessoa stesso: “What is man himself…”. La riflessione profonda sull’essere umano, sulla sua esistenza è ciò che permea tutti gli scritti del poeta portoghese, insieme al dramma di non riuscire mai davvero a trovare una risposta a questi interrogativi. Robert Wilson, Charles Chemin e Darryl Pinckney – che ha firmato la drammaturgia dello spettacolo – sono riusciti nell’opera affatto banale di “mettere in luce” non solo gli aspetti drammatici e introspettivi della poetica di Fernando Pessoa, ma anche i lati comici, brillanti, meditativi e anarchici, in una fluidità umorale che non nasconde le numerose personalità eteronime dell’autore, ma anzi le celebra.

Pessoa
ph. Lucie Jansch

E non a caso si è parlato di “mettere in luce” le differenti personalità. Chi conosce anche minimamente l’opera di Wilson, infatti, sa che l’utilizzo scenico e scenografico della luce è da sempre uno dei suoi tratti distintivi e identificativi. Sin da quando, studente di architettura, assiste a una lezione in cui il professore sottolinea la centralità della stessa nella progettazione di uno spazio, ripetendo: «Studenti, cominciate con la luce!». Lezione che, evidentemente, non ha dimenticato, facendone anzi un mantra. Il regista racconta: «Quando comincio a lavorare, la prima cosa che faccio è illuminare lo spazio. […] Anche se non so ancora quale sarà il testo o la situazione, comincio con la luce», ritenendola protagonista tanto quanto il testo e gli attori.

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La luce è un elemento astratto eppure fondamentale, capace di comunicare e creare, dando forma a due componenti altrettanto astratte eppure centrali nel teatro: tempo e spazio. Essa, unita al colore, anche questo usato in modo incisivo dal regista-artista texano, crea le scene come fossero quadri, generando immagini che si avvicinano all’arte visiva e amplificano la fascinazione dell’insieme.

L’abbandono della narrazione

La dimensione onirica che Robert Wilson è stato in grado di conferire (anche) a Pessoa – Since I’ve been me trascina lo spettatore in un universo-altro, uno spazio e un tempo in cui si abbandonano le narrazioni tradizionali e ci si lascia trasportare dalle parole senza che queste assumano un senso definito nella mente. Come una poesia che non necessita sempre di essere compresa in ogni sua parte per essere apprezzata e per emozionare. E sembra, infine, essere Pessoa stesso a racchiudere e svelare il senso della sua opera e dello spettacolo a lui dedicato: «Di’ addio all’errore infantile di chiedere alle parole cosa significano».

ph. Lucie Jansch

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Rebecca Sivieri

Classe 1999. Nata e cresciuta nella mia amata Cremona, partita poi alla volta di Venezia per la laurea triennale in Arti Visive e Multimediali. Dato che soffro il mal di mare, per la Magistrale in Arte ho optato per Trento. Scrivere non è forse il mio mestiere, ma mi piace parlare agli altri di ciò che amo.

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