Notti passate con la luce fissa sui libri del liceo scientifico mi hanno portato a risolvere il problema del moto perpetuo, finalmente. “È impossibile ottenere il moto perpetuo per via meccanica, termica, chimica, o qualsiasi altro metodo, ossia è impossibile costruire un motore che lavori continuamente e produca dal nulla lavoro o energia cinetica”. Così il fisico Max Planck ne dichiara l’inesistenza- fonte apparentemente affidabile, dal momento che egli formulò quella teoria dei quanti che è uno dei pilastri della fisica moderna-.
Invece, esiste eccome questo motore, ed è vivo: si tratta dell’animo umano, perfetto esempio di energia in perenne metamorfosi. Ribelle e in lotta contro se stesso, l’uomo vive in universo caotico, ma gli istanti di quiete sono vitali per fare i conti con i propri tormenti. In particolare, il momento in cui la parola è nulla, in cui il silenzio ammanta ogni cosa e la realtà appare sospesa fra vita e sonno, ecco, anche lì il moto interiore non si ferma, anzi. I poeti vivono di questi attimi, e cuore e mente si fondono allora in unico labirinto di intricate riflessioni e di impressioni intime.
Nell’ultima settimana di Luglio non ho letto nulla all’infuori delle liriche di Konstantinos Kavafis (1863-1933), poeta e giornalista. Apro una pagina, guidato da un segnalibro, e un profumo di malinconia greca mista ad affetto quasi paterno taglia il cielo grigio padano, opprimente e scontato:
“E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai
frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.”
La poesia Per quanto sta in te rivela lo stile di Kavafis: chiaro e netto, riesce ad alleggerire la parola “vita”, dal potere così evocativo che rischia di essere troppo ambigua. Ma in questi versi essa appare un viaggio alla ricerca del ragionato distacco dalla massa, sempre più serva di un mondo “frenetico”. Adoro immaginarmi il preciso attimo in cui il poeta, in rigorosa auscultazione del mondo, ha percepito i battiti essenziali per creare una lirica sul potere della ragione: in silenzio, immersosi con tutto il corpo nella brezza marina della sua Alessandria d’Egitto, rimane emozionato dalla quiete, che ci dona la possibilità di distinguerci, di diventare dei veri animali politici. Il nostro è infatti un mondo che tende progressivamente a precludere le porte del pensiero critico, rimanendo gerarchizzato in lobby sociali dove ogni etichetta è il marchio di fabbrica finalizzato a zittire la nostra resistenza, etica, emotiva e culturale. Si è vivi davvero quando solo ci si contrappone con ardore contro questo conformismo, dunque? Sì, ma anche no. Personalmente sono scettico sull’effettiva possibilità di stravolgere la realtà, specie se attraverso roboanti fiumi di parole.
La migliore via per non “sciupare nel troppo commercio con la gente” la propria vita è quella di evitare esibizionismi vuoti, e zittirsi nel momento necessario: prendere in considerazione la situazione contingente, sviscerarla, entrare nel cuore del problema, e vivere nel dubbio senza la pretesa di formulare soluzioni certe. Perfino il venerabile Max Planck non poteva esser sicuro di quel che affermava: figuriamoci noi.
L’altra realtà che si cela dietro al silenzio è meno razionale, e si concretizza quando ogni cosa attorno a noi appare quasi irreale, sembra appartenere ad un mondo diverso dal nostro: alienazione che si risolve così in uno stato d’animo sospeso fra la Veglia e il Sonno. Il silenzio in questi casi è come una perla, che fa brillare alcune realtà nascoste. Come avrebbe creato Dino Buzzati i suoi racconti magici, senza l’immobilità del cielo milanese? Come avrebbe dato vita ai Malavoglia Giovanni Verga, senza ascoltare lo sciabordio silenzioso delle onde sulla riva di Acitrezza? Come avrebbe espresso l’infinito nell’omonima lirica Giacomo Leopardi, senza la contemplazione del paesaggio recanatese? Come vivrebbe un uomo senza il silenzio?
Torno adesso ad impersonarmi in Konstantinos Kavafis, che, nel buio della propria stanza, si sente l’anima punta da un lamento: un’estenuante sofferenza, forse senza motivi concreti, che divora i suoi giorni. E scrive:
“In queste buie stanze dove passo
giornate soffocanti, io brancolo
in cerca di finestre. -Una se ne aprisse,
a mia consolazione-. Ma non ci sono finestre
o sarò io che non le so trovare.
Meglio così, forse. Può darsi
che la luce mi porti altro tormento.
E poi chissà quante mai cose nuove ci rivelerebbero.”
La luce della poesia illumina il senso di soffocamento, riuscendo ad esprimerlo in versi. Questa sorta di spleen baudelairiano attanaglia il cuore di un greco “in cerca di finestre”. In effetti, Kavafis soffriva per la deriva della propria patria: egli, nato e morto ad Alessandria d’Egitto, proviene da una famiglia greca, e questo distacco dalla terra a cui sente di appartenere acuisce il senso di pena che macera dentro di sé. Nei suoi occhi, chissà, brillano vividi i fasti della sua Grecia sedimentatisi poi col tempo dietro al conformismo borghese e alla mercificazione dell’esistenza dell’occidentale medio. Ed è nel silenzio della propria stanza che cresce questo moto perpetuo di tedio misto a rabbia.
Per concludere, la quiete non solo vivifica la mente, ma anche la sensibilità del cuore. Le sfumature del mondo prendono colore durante un attimo di pace, che può essere illuminante o inquietante, in base al proprio stato d’animo. Ergo, la tesi di Planck è frantumata, mille pezzettini di scienza che cadono a terra, sbriciolati dal cuore dell’uomo: cosa c’è di più vero se non il perpetuum mobile della nostra anima?
Andrea Piasentini