Spesso ci si persuade che il periodo più duro e violento della storia recente sia stato il Novecento, il secolo della violenza delle guerre, degli stermini e dei totalitarismi, adagiandosi sulla convinzione che ora gli agi, la pace apparente e le giornate della memoria abbiano superato quella crudeltà, che non può più tornare. Se nel Novecento era eminentemente l’Europa ad essersi “raffreddata” a tal punto da farsi sopraffare da istinti di annientamento, oggi ad essersi “raffreddato” è il mondo intero.
Filosofie originarie come quelle di Martin Heidegger ed Emanuele Severino, che per Cacciari stanno in un rapporto di aut aut [1], sono il tentativo di ripensare gli errori dell’Europa, cuore pulsante del Pensiero, scacchiera concettuale del mondo. Esse possono essere le lenti attraverso cui leggere originariamente il mondo, soprattutto oggigiorno, e alle loro pagine va corrisposta la serietà che meritano: in tal senso, la filosofia non è una cosa per i “velocisti” della lettura, come ha scritto Nietzsche da qualche parte.
Prendendo in considerazione il pensiero di Emanuele Severino, a noi più vicino cronologicamente, si può diagnosticare nevralgicamente la malattia dell’Occidente, che manifesta i suoi sintomi ogni giorno: la violenza. Bisogna ritornare al fondamento del Pensare e reinventare le nostre categorie di Pensiero per scoprire adombramenti di una prassi fino a tal momento ignorati.
Leggi anche:
Emanuele Severino: oltre la morte e l’estrema follia
Nella testimonianza di Emanuele Severino, la violenza è la fede che le cose possano essere manipolate, modificate, contraffatte, in una battuta, che possano divenire. Ciò è l’ammissione che le cose provengano dal nulla, per mezzo di un atto potente e creativo, e che vi facciano ritorno. Tuttavia, l’istituzione di un Creatore ha aperto le porte alla possibilità di essergli rivali, combattendolo a tal punto da decretarne la morte, sentendosi investiti dello stesso potere. Come ha scritto il pensatore bresciano, recentemente scomparso:
Il volere che qualcosa divenga altro ha anche nomi terrificanti: vuol dire per esempio Auschwitz. […] Tuttavia Auschwitz è ciò che compare quando la volontà crede e vuole far diventare in un certo modo “altro” l’essente.
La volontà è la persuasione che le cose possano essere cambiate, superate, dimenticate. La Filosofia è rimembranza continua, non può incasellarla in una sola giornata. Nella prospettiva severiniana, Auschwitz è: pensarlo come un evento che non è più, significa farlo andare nel nulla e, peggio, rendere il nulla un qualcosa. L’uomo, dopo aver annientato Dio, ha visto l’uomo stesso come preda [2] e si è sentito portatore del potere terribile di trarre le cose dal nulla e riporvele.
Ogni nostra azione si basa sulla fede che le cose nascano in quanto prima non erano ancora, e poi periscano, in quanto non sono più. Questo è il fondamento della Tecnica, della macchina dalla quale non si scappa [3]. Ogni nostra azione è decisione: separazione della cosa dalla relazione che essa ha con ogni altra, isolamento chirurgico di essa come parte. Heidegger e Severino ci dicono che la violenza è l’essersi dimenticati addirittura di essersi dimenticati di questa follia.
Leggi anche:
Donne e violenza sessuale: gli abusi dimenticati della Seconda guerra mondiale
Che fare allora? Si tratta veramente di fare qualcosa? La notizia filosofica del destino della Verità – il tentativo di pensare ogni cosa come eterna, come stante fortemente, nonostante essa non appaia più – è la non-follia che permette di non cedere alla follia di separare l’origine delle cose dalla loro esistenza; il destino è lo stante, il destino è «relazione» [4] tra la stabilità degli essenti.
Si potrebbe prendere un esempio da Popper: gli enti sono come istanti di una pellicola che appaiono sullo schermo. Non si creano dal nulla mentre il film si guarda, essi sono già prima e sono anche dopo essere apparsi [5]. Si tratta dunque di guardare facie ad faciem il destino, scoprendo che l’uomo non è il mendicante perituro e transeunte, e che il nulla è la direzione delle cose, che il nulla è τò τόδε τι (“questa cosa qui”) è persuasione , ovvero inganno [6].
Si tratta, infine, parafrasando ciò che Gesù [7] disse a Pietro, di perdonare «7 mila volte 7»: poiché l’agire violento ci è destino, agire violentemente senza la coscienza di farlo incarna il volto più truce della violenza: si traduce in sterminio, annientamento, distruzione incontrollata.
Zeno Pasquato
Note:
1_ http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/02/22/la-sua-lezione-pari-quella-di-heidegger.html?refresh_ce
2_ Cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialektik der Auflärung, Querido Verlag, Amsterdam, 1947; tr. it. Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1992, crf. in particolare il capitolo Il concetto di Illuminismo.
3_ On n’echappe pas à la machine. In proposito: http://www.youtube.com/watch?v=zKQeRgCmeh8
4_ Cfr. E. Severino, L’identità del destino, Rizzoli, Milano, 2009, lezione 27, p. 243
5_ K. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, II. L’Universo aperto, Il Saggiatore, Milano, 1994, cap. IV.
6_ Dal greco péithein. Cfr, E. Severino. Téchne. Alle radici della violenza, Rizzoli, Milano, 2016, pp. 67-71.
7_ «In quel tempo, [21] Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». [22] E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.», Mt, 18, 21-22