A coloro i quali affermano che parlare oggi, ancora, di Roma città aperta sia operazione arcinota, è bene rispondere che esistono film che resistono al tempo, allo spazio e a qualsiasi retorica. La Settima arte ha dato vita a prodotti di pregio assoluto, offrendo un racconto della Resistenza pari – e a volte persino superiore– a quello dato dalla letteratura. Come ogni forma artistica che si rispetti, questa è stata in grado di evolversi negli anni, maturando forme narrative di volta in volta più mature, meno convenzionali, capaci di narrare il dramma della guerra con l’occhio al passato e un piede nel futuro. La visione de La notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani scuote ancora nel profondo coloro che, attraverso la rievocazione della strage del Duomo di San Miniato, hanno potuto sfiorare i pensieri e le paure della “povera gente” impegnata in un conflitto nel conflitto, con la fame che stringe alla gola e le spalle esposte agli attacchi del nemico. Era il 1982 e un nuovo corso narrativo si affacciava all’orizzonte. Eppure è proprio dagli anni “caldi” che escono i prodotti migliori, quando il presente si fa già storia e più che cogliere le cause ci si sofferma sugli effetti. Vivere in presa diretta gli eventi può causare shock e scosse emotive, ma rende possibile narrare con il cuore quel prato martoriato che, dopo anni di torture, ritorna a fiorire.
Roma città aperta nasce così, quasi d’impeto, a soli tre mesi di distanza dalla liberazione della capitale. È il 1944 e Roberto Rossellini, forse l’unico in grado di raccontare davvero la storia, realizza quella che sarà l’opera manifesto del Neorealismo e il ritratto più crudo e struggente dell’Italia liberata. Tra i resti e le macerie di una città ancora in guerra, il regista mostra senza filtri, nero su bianco (il nero dei corpi in movimento sul bianco dello sfondo, giacché per definizione il bianco è un non colore e contiene in sé tutti gli atri) le torture, i soprusi, le ferite di una guerra che si dipana tra i fotogrammi, rivelandosi mai così vicina anche a settant’anni di distanza. La sceneggiatura c’è ma non si avverte, vive di attimi ed eventi recenti modellandosi sull’incredibile spontaneità di autori e interpreti. È il cinema verità, è la vita che si fa arte.
Del resto è la tragica storia di don Pietro Pappagallo, trucidato alle Fosse Ardeatine dai nazifascisti il 24 marzo ’44, a ispirare la figura dell’omonimo prete (Aldo Fabrizi) sostenitore dei partigiani; torturato fucilato come don Giuseppe Morosini arrestato dalla Gestapo e ucciso barbaramente, il prelato rosselliniano è un miscuglio perfetto di virtù eroiche e spirito di carità, a dimostrazione di come la strada, e la sua Chiesa, fossero molto più cristiane delle gerarchie oscure. E Pina (Anna Magnani), con la sua dirompente enfasi dialettale, con l’amore per il suo Francesco portato via su una camionetta infame, è la vera Teresa Gullace uccisa da un tedesco perché aveva osato portare un pezzo di pane al marito “rastrellato” e condotto nella caserma di Viale Giulio Cesare. Sono personaggi di una storia italiana, mai così tragica nella sua essenza, mai così vera nella finzione cinematografica.
L’occhio di Rossellini indugia volontariamente sui dettagli, e predilige lo sguardo innocente di coloro che sono vittime e testimoni di una violenza insensata, nati dalla parte che oggi definiremmo “giusta” del mondo ma nel momento sbagliato. Marcello (Vito Annichiarico), il figlio di Pina e Francesco, è l’esempio perfetto di una visione fanciullesca che funge da monito alle future generazioni, affinché l’orrore vissuto non debba ripetersi e dalle ceneri di una capitale distrutta possa nascere, di nuovo, un Paese. Occhio vigile quasi accecato dalle fucilazioni della madre e di don Pietro, è il simbolo di una categoria che porta in sé la speranza di un futuro da cui ripartire, bambino tra i bambini che in chiusura attraversano una panoramica di Roma stretti e abbracciati l’uno all’altro. Un’ottica straniante che richiama il Pin del Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, con la sua visione in grado di allontanare la consapevolezza del giudizio storico degli adulti.
Quello rosselliniano non è dunque un realismo documentaristico, incline al rischio della mimesi degli eventi e talvolta poco adatto a raccontare ciò che ha bisogno di parole. L’incomunicabilità tra il popolo romano, semplice e rozzo nella sua inflessione, e i soldati tedeschi, significativamente non doppiati, è la metafora di una muro invalicabile che separa i parlanti che mancano di parole, laddove queste sono state sottratte dal potere cieco, sordo e straniero, capace di generare solamente paura e oppressione. La compostezza di don Pietro mentre sta per essere fucilato lo rende simbolo di una ritrovata coscienza e di una moralità dal valore universale, con quelle ultime parole «Non è difficile morire bene, difficile è vivere bene» che lo proiettano nel paradiso degli eroi umili, come la Pina fucilata mentre urla il nome del compagno, come Manfredi (Marcello Pagliero) la cui relazione sentimentale segnerà il destino di tutti i personaggi.
«Con Roma città aperta l’Italia ha riconquistato il diritto di guardarsi di nuovo in faccia» affermava Jean-Luc Godard e se il cinema, fotogramma per fotogramma, era stato con questo ricostruito, la memoria, oggi più che mai difficile da coltivare, deve a Rossellini il merito averle consegnato, nel ’44 e per sempre, uno degli strumenti più potenti di lotta all’oblio.