Il 20 aprile del 1999 è un giorno come gli altri, negli Stati Uniti d’America. Sono le 11 del mattino e due auto vengono parcheggiate, nei posti a loro non riservati, alla Columbine High School. Ne escono due ragazzi. Tra le mani stringono dei borsoni. Nessuno lo sa, ma dentro a quelle borse ci sono ordigni di bombe al propano da 9 kg. Fanno il loro ingresso a scuola e posizionano le borse contenenti le bombe all’interno della mensa. In quel momento, il tecnico sta cambiando le telecamere. Una volta appoggiate le borse nel reparto mensa, se ne tornano in macchina, ad attendere l’esplosione. Hanno programmato tutto. Le bombe scoppieranno, i ragazzi correranno fuori, in preda al panico, e loro faranno fuoco. L’esplosione è attesa per le 11:17. Quando non vedono il caos, gli studenti che corrono fuori urlando, in preda al panico, i due, Eric Harris e Dylan Klebold, escono dalla macchina, con in mano due fucili a pompa e fanno il loro ingresso in scena. Il rumore dei proiettili si propaga per tutto l’istituto. Il massacro, quello che l’opinione pubblica ricorda, avviene nella biblioteca dell’istituto. Il teatro della crudeltà messo in scena dai due si conclude con un colpo alla testa e uno in bocca e con i corpi degli altri studenti, alcuni morti, alcuni feriti, altri che moriranno da lì a breve, lasciati sul pavimento della scuola. È l’esclusione dell’altro che alimenta la violenza di gruppi come l’ISIS.
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Cosa c’entra tutto ciò con l’attentato terroristico dell’altro giorno a Parigi e con l’Isis? A primo impatto, nulla. Sono due casi differenti, lontani nello spazio e nel tempo. Eppure si può notare una matrice comune: l’esclusione dell’Altro come fondamento della violenza.
Dopo la Columbine, nell’America pronta a finire nelle mani di George W. Bush, partì una sorta di processo mediatico a band, cantanti, artisti che inneggiavano alla violenza, portato avanti dalle associazioni ultracattoliche. Erano già accaduti casi di questo tipo: band, come i Judas Priest, erano già state citate in giudizio, uscendone sempre innocenti. Quella volta però l’opinione pubblica sembrò una sorta di rapace, colpendo il trasgressivo Marilyn Manson, colpevole di aver spinto, con la sua musica, questi ragazzi ad un gesto estremo di tale portata. Dopo mesi di indagini, dibattiti, si arrivò ad una conclusione: quella strage non era causata da Manson o da qualsiasi altro cantante metal, bensì dall’isolamento e dal sentimento di inutilità provato dai due attentatori.
L’Isis, questo, lo sa benissimo. Sa benissimo che il non sentirsi parte di una comunità, l’estraneità, il non essere capiti possono essere armi a suo favore. In un clima di nichilismo generale, soprattutto tra gli immigrati di seconda generazione, la lotta islamica radicale e fondamentalista offre al giovane emarginato una via di fuga, un ideale unico in cui riconoscersi. Non si tratta di cause comunitarie, ma dei motivi che spingono il singolo a prendere parte alla Jihad.
Molti seguaci dell’ISIS come mostrato da indagini e testimonianze, non sono immigrati o fuggitivi dalle zone di guerra: il loro percorso è l’esatto contrario, un ritorno ai luoghi di guerra dopo due generazioni in Europa dove, per volontà propria o della comunità, non si è riusciti in un percorso di integrazione e condivisione di valori.
Proprio in virtù di questo spaesamento, l’ISIS ha incrementato la sua presenza sui social. Lo dimostra un saggio di Marta Serafini, presente nella raccolta Che cos’è l’ISIS?: da anni l’Isis ha realizzato che l’importanza del social è cruciale tanto quanto la conquista di pozzi iracheni o di città libiche sulla costa. Perché, come accaduto con James Foley, il video non è solo un mezzo per spaventare gli infedeli, costringendoli al panico, ma anche un modo per attirare addetti, persone che cercano una causa a cui dedicarsi. Sta proprio nel soffocamento dell’Altro in favore di una cultura egemonica la nascita della violenza, che poi esplode, causata dalla psicosi del singolo.
Non è un caso che, nei bar, nelle aule di scuola, l’indomani dell’attentato, il sentimento sia stato prima di sbigottimento, di incredulità, confluito poi in uno stato di impossibilità, di sentirsi pedine di un qualcosa di più grande. Poi di crudeltà, del trovare un nemico contro cui sfogare il proprio sconforto. Lo stesso modo, appunto, adottato dall’ISIS a monte.
Alcuni governi, partiti, esponenti politici e intellettuali hanno invocato una politica di restrizione. Un atteggiamento di questo tipo non solo non coglie la radice del problema, anzi la ribalta. Ad attentati come questi, la risposta deve essere comprensione, riflessione e, in secondo tempo, inclusione del diverso. Perseverare in questa tendenza esclusiva, significa fomentare sottoculture della violenza.
Non ci resta altro che capire questo.
di Mattia Marasti
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