Sacerdotessa indiscussa del rock, icona femminile degli anni ‘70, Patti Smith è una di quelle cantanti che, senza ombra di dubbio, hanno lasciato il segno nella storia della musica. Dagli esordi sperimentali e dalla vena psichedelica ai successi più marcatamente rock, il suo percorso è stato influenzato dai grandi cantautori della musica americana, in primis Bob Dylan e Jim Morrison, che, spinti da una letteratura in forte fermento, avevano avviato quella mescolanza di musica e poesia di cui anche la stessa Smith si sarebbe fatta sostenitrice. E proprio come Bob Dylan, nonché Leonard Cohen, per Patti Smith la musica non è stato altro se non un ritorno al nucleo poetico originario, a quell’unicità di parola e musica che già gli antichi Greci ritenevano spesso indissolubile.
Arrivata giovanissima a New York, Patti Smith non aveva il sogno di diventare una cantante, ma di incarnare nella sua vita l’essenza della poesia. Spinta dalle letture di Arthur Rimbaud, intraprese un percorso iniziatico che fece incrociare la sua strada con quella di un altri giovani artisti nell’energica New York della fine degli anni ‘60. Le affinità col poeta francese sono tante, i riferimenti a lui nelle sue canzoni e poesie quasi ossessivi: Rimbaud è l’artefice della sua vocazione, colui che ha alimentato il demone della sua scrittura. La sua sembra la classica storia della ragazza di provincia giunta senza soldi nella grande città e, in effetti, la vita un po’ nomade, le notti al Chelsea Hotel, le sere passate in compagnia di alcuni dei più grandi artisti del XX secolo rendono la sua esperienza il simbolo del miraggio onirico di quegli anni. Per questo lei incarna, anche in quanto donna, un simbolo di libertà artistica simile a quello rappresentato, giusto qualche anno prima, da Janis Joplin.
Nella metropoli americana fece un incontro che le avrebbe cambiato la vita: Robert Mapplethorpe. Con Mapplethorpe iniziò un sodalizio che li portò all’amore, alla convivenza, fino alla scoperta da parte di Mapplethorpe della sua omosessualità. I due, però, continuarono a essere intimamente legati tanto che la quasi interezza delle loro opere giovanili è il frutto di una ricerca e una sperimentazione che, a volte, non può dirsi dell’uno meno che dell’altro. Poesia, fotografia, teatro, sesso, viaggio: la loro strada è costellata di un flusso continuo di spunti che, nell’America degli anni ‘60 e ‘70, diedero vita a una nuova generazione di artisti, mossi alla base dai lasciti della beat generation, infiammati nello spirito dai moti sessantottini, infilati nella visione di un mondo futuro che, al di là di tutto, sembrava ancora incline al cambiamento.
A Mapplethorpe, morto nel 1991 di Aids, la Smith ha dedicato un intenso memoir, dal titolo Just Kids: un atto di devozione volto a ricostruire la grandezza di uno dei più grandi fotografi della storia. Il titolo deriva da un episodio di cui entrambi furono protagonisti: mentre camminavano insieme, indossando abiti stravaganti, una coppia di anziani si fermò ad osservarli. Mossa dalla curiosità la donna chiese al marito di scattar loro una fotografia. «Perché?» chiese l’uomo «Sono solo ragazzi». I due, in verità, non erano “solo ragazzi”, ma forse anche i grandi trovano conforto nelle definizioni più semplici, dove celano la loro nostalgia per il passato ancora informe, ma pieno di un dionisiaco spirito di creazione. Just Kids, pubblicato nel 2010, è un interessante testimonianza di vita artistica, un fiume in piena di parole, frammenti di un America e di un mondo, oggi ormai scomparsi, esasperati fino a perdere ogni accenno di poesia.
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La sua attività di poetessa cominciò ufficialmente nel 1972 quando venne pubblicata la raccolta Seventh Heaven. Negli anni successivi seguirono Early Morning Dream e Witt. In Italia particolare successo ha avuto la raccolta Early Work 1970-1974, tradotto come Il sogno di Rimbaud, edito da Einaudi, e Presagi di innocenza, edito da Frassinelli. Oltre ai testi pubblicati propriamente come poesie, non vanno dimenticati i testi musicati, spesso pregni di una forte emotività e che sfuggono alla regole formali della metrica. L’esempio maggiore è certamente da ricercare nei testi di Horses, il suo primo album, ispirato proprio alla poetica di Rimbaud, dove testi complessi che fuggono la dolcezza linguistica propria del pop di quegli anni si mescolano a note psichedeliche e dissonanti. La sua è una penna visionaria che fa da eco alla grande tradizione del simbolismo francese, traendo da esso l’improvvisa esitazione che dà luogo alla contemplazione, impregnandosi però di tematiche nuove e attuali.
Con le calze di nylon o scalza
stracolma d’orgoglio o curva come l’amore
ramoscello o ballerina al vento
lo stesso vento ma fetido di porci
polline che dà la tosse o rosa
fantastica crudele diversa da tutto
fare a meno dell’apparecchiatura
da sala operatoria
essere immune da ogni danno fisico
conoscere l’amore senza eccezione
essere santa in qualsiasi formaPreghiera, da «Il sogno di Rimbaud»
C’è una bellezza nell’uso della parola di Patti Smith, un occhio che cerca e non sempre trova, ma il roteare stesso all’interno dell’orbita lo rende sacro, occhio di poeta. Di certo, apprezzabile o meno, il suo lavoro si inserisce in quella collezione americana di poesia da strada, non in senso dispregiativo, ma come vicinanza al comune, al pratico, ridisegnandolo in una prospettiva di dubbio.
Ancora oggi Patti Smith si esibisce spesso in reading poetici, declamando le poesie proprie e altrui, amata da quel pubblico che non la conosce solo per Because the night e People have the power ma che la guarda come si guardano gli artisti ancora in vita: con ammirazione e grande speranza che non passi troppo tempo prima che al nome Patti Smith venga accostato principalmente l’epiteto più importante, quello di poetessa.
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