Da sempre sbandierato dagli intellettuali di sinistra, il nome di Pier Paolo Pasolini va ben oltre la politica. Con le sue critiche taglienti e il suo linguaggio diretto, asciutto e talvolta ammantato da un pessimismo spesso comune in chi riesce a guardare molto più avanti degli altri e a fornire pronostici purtroppo azzeccati, lo scrittore ci ha regalato qualcosa di più della sua letteratura e delle sue opere, anche cinematografiche e teatrali.
Pasolini ci ha lasciato un’interpretazione profonda e forse mai metabolizzata dagli italiani – anche intellettuali o presunti tali – della società che ci circonda, della cultura di massa, del rapporto tra potere, economia, comunicazione e gente comune. Il 9 dicembre del 1973, sul Corriere della Sera, apparve un suo intervento nel quale l’autore analizzava il rapporto tra modelli culturali, omologazione del pensiero e ruolo passivo della società.
Aveva capito prima di tutti e perdendo probabilmente molte delle sue giovanili speranze rivolte ad uno sviluppo culturale e politico della società contemporanea, che l’era del mercato, del consumo, delle pubblicità, avrebbe coinvolto tutti e tutto, aprendo la strada ad una vera e propria repressione silente e drammatica dell’originalità del pensiero e della libertà degli individui. Scritta così la questione potrebbe sembrare esagerata, ma Pasolini la spiegò in quell’occasione paragonando la società dei consumi alla dittatura del ventennio fascista:
«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della società dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad avere la loro adesione a parole».
Il consumismo secondo Pasolini: un regime che agisce sull’inconscio
Per Pasolini, invece, l’allora neonata società dei consumi – oggi ancora più viva grazie al web, ai social e alle vendite online – riesce a scavare sin nel profondo degli animi e del pensiero della gente, indirizzandone le scelte, le esigenze, i sogni e i bisogni non con la forza fisica della dittatura fascista, ma senza che la gente se ne accorga. Ecco che il modello culturale non è più imposto, come nel ventennio, ma è accettato passivamente. La società diventa dipendente dal modello, viene assorbita dal modello e qualunque pensiero autonomo è inevitabilmente arginato. «Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la tolleranza dell’ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana», ci spiega ancora Pasolini nell’articolo del 1973. Persino le proteste, le rivendicazioni di libertà, i simboli della lotta e della critica, l’anticonformismo comportamentale e culturale, divengono conformismo e strumento del potere del mercato, quando da spontanei che nascono si trasformano in elementi quasi di “moda”, in tendenze svuotate del loro valore.
L’anticonformismo diventa conformismo, i simboli di rivolta diventano moda. Le parole di Pasolini
Circa un anno prima dall’articolo sul centralismo del consumo, nel gennaio sempre del 1973, Pasolini firmò un altro pezzo sul Corriere, nel quale criticò i capelli lunghi allora in voga tra i giovani perché, appunto, nati come ribellione e anticonformismo, come linguaggio di protesta non verbale, erano divenuti moda. Si erano così banalizzati e diffusi da perdere qualunque significato, da non essere più il segno di una lotta per la libertà di poter essere alternativi. Erano stati inglobati dal potere, dal mercato e dai media.
«La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto pazientemente una moda, che se non si può proprio dire fascista nel senso classico della parola, è però di un’estrema destra reale», scrisse. Insomma, il rischio che un simbolo di lotta e di critica divenga funzionale al potere è dietro l’angolo. Per Pasolini, dunque, anche una protesta, una ribellione accettabile, una critica culturale al potere, può divenire moda, può svuotarsi del suo senso più genuino divenendo anche dannosa per la stessa causa per la quale è nata.
I simboli di libertà diventano simboli del potere e del consumo
Ed ecco che così facendo, trasformando in moda anche i simboli di una protesta, si «ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre» afferma Pasolini, aggiungendo che: «essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e nel loro aspetto fisico convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre. Ora così i capelli lunghi dicono […] le cose della televisione o delle reclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia capelli lunghi». E ancora, asserisce come «la loro libertà di portare i capelli come vogliono non è più difendibile perché non è più libertà». In questo modo egli ci ha messi in guardia, in guardia dai simboli della ribellione e della protesta che, anche talvolta strumentalizzati dal potere, divengono conformismo e vengono svuotati di un significato autentico. Anche così, per lo scrittore, nascono nuovi fascismi.
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