Simone Saccucci gira per le strade e per le piazze, per i parcheggi e le miniere, con la chitarra sulla spalla e una barba folta, inzuppata di fili di parole. È un cantastorie e, mentre racconta, fa «come i bambini quando giocano al “facevamo finta che noi eravamo…”». E a chiedergli perché, si rivede ancora bambino sulle ginocchia del nonno che «guarda nel vuoto e fa apparire personaggi e luoghi con il suo italiano semplice ma tanto affascinante». Ma se tutte le storie fanno bene al cuore, anche quelle sussurrate sotto il buio caldo di una coperta tirata sulla testa, Simone decide di raccontare per «salvare la testa» alle persone, a quante più persone si può. Originario di Guidonia, un piccolo paesino alla periferia di Roma, e laureatosi in Pedagogia e come Assistente Sociale, su queste basi si puntella per realizzare il suo progetto.
«Mi sembra a volte si manchi di fiducia su ciò che le storie possono fare senza sovrastrutture di tipo psicologico od educativo». Il suo lavoro si spiega nella non-spiegazione, perché le energie primordiali che sprigionano certi rituali non ci stanno a farsi psicanalizzare. Lui queste storie, che raccoglie e risemina, le usa «ma più di tutto mi fido di loro». Le va a prendere a casa, e le incoraggia a sgusciarsi, e ridendo a mescolarsi, su un palco domestico prima, poi sul palcoscenico del mondo. E quando le storie si lasciano andare, nessun luogo più è inadeguato per vederle mischiarsi.
Simone canta nelle strade, nei vicoli, nelle piazze – e quando non ci sono, nei parcheggi – nei teatri, nelle cave di travertino e nei cementifici. Canta le storie della gente che questi posti li abita, che tutto il giorno tutti i giorni calca le loro pietre, ansima tra le loro pareti, o nei loro vasti orizzonti. Parte da uno spunto suo, da una persona che ha incontrato, o da una vicenda che lui ha vissuto. E questa diventa miccia, che accende tanti fuochi, ma sempre fuochi amici. Fiaccole, che fanno un po’ meno oscuro, un po’ meno inospitale, il cammino di una, di tante, vite. Le dinamiche umane, soprattutto quelle strette in uno stesso luogo, si assomigliano, e spesso si sovrappongono. Per questo a raccontare un pezzetto di sé, spesso si fa eco anche al pezzetto degli altri. E questi pezzetti, a vedersi chiamati in causa, ci tengono a manifestarsi, e ognuno di loro a dir la propria. «Perché ci credo, perché è una storia che mi ha toccato e mi ha fatto bene e quindi è molto probabile che farà bene a chi l’ascolterà».
«La musica entra più velocemente, penso. Una canzone che non parla di sentimenti, ma è una storia, arriva nell’immediato, perché viaggia su una melodia». Musica come linguaggio universale, ma musica anche come invito alla partecipazione. «Se poi, come spesso faccio, quella canzone invito a cantarla con me, imparandola mentre la sto facendo, il tutto diventa un coro. E quando ti ritrovi a far coro con uno accanto a te, che a volte neppure conosci, l’esperienza può essere interessante». Chiedere di partecipare è «un chiedere in onestà di stare con te in quel momento, dentro una o più storie raccontate in buona fede. È un percorso che fai – e provi a far fare – progressivamente, piano piano, durante il momento dal vivo». «Partecipazione, in momenti dal vivo che hanno a che fare con lo spettacolo, è tenere d’occhio sempre un equilibrio tra ciò che do io e ciò che richiedo al pubblico».
«Le storie, così, son diventate per me le prove per amare il luogo in cui vivo». Macellai, minatori, gente piccola e sogni grandi. Di solito sono queste le storie che Simone predilige, e le periferie i luoghi che fanno da cornice. «Sono convinto che una narrazione all’interno dei territori, soprattutto se periferici, possa essere utile per far sì che i cittadini di questi territori migliorino l’approccio che hanno alle loro strade, al loro luogo di vita in generale e che, dolenti o nolenti, è legato all’interiorità di chi lo vive anche se non vuole». Periferia e dormitorio, un termine vecchio e uno nuovo per descrivere uno spazio che non esiste. «È una parola che caratterizzava perfettamente alcune zone, negli anni Settanta, ma oggi quelle fette di terra incolta che dividevano il centro dalla periferia, vengono riconvertite velocemente in aree edificabili e questo rende tutto confuso, almeno dal punto di vista fisico». «Dormitorio, la trovo invece una parola ancora attuale, anche se fuorviante perché forma all’indifferenza. Dire che un posto è un dormitorio spesso giustifica a considerarlo non meritevole di nessuna attenzione di tipo culturale, artistico o educativo». Insomma la periferia è spazio ma non-luogo e spesso manca di un’anima, che la narrazione contribuisce a costruire. Per rivitalizzare queste terre di nessuno, Simone regala loro delle storie, le loro storie, che cuciono insieme un passato che c’è stato, pur se non ricordato.
«Il passato raccontato non è il passato che ci fu, è qualcos’altro». È un «sentire che tutto è nato da qualcosa e non per caso». E non devono più essere racconti di disagio o di imbruttimento, che veicolano lamentele destinate a espatriare nella discarica dell’abbandono. Devono essere arterie che dissetano terre atone, linfe che alimentano future fruttificazioni. «Ed è per questo che se anche a volte mi trovo a stare in scena a teatro o in radio, o ad organizzare attività in un museo o biblioteca, il luogo dove tutto può succedere è sicuramente il parcheggio della periferia o il negozio aperto di domenica per farci raccontare, cantare e, soprattutto, tirar fuori un abbozzo di narrazione comune».
«Se non abbiamo piazze ma solo parcheggi, vorrà dire che useremo i parcheggi come piazze». È il motto del Collettivo48, un gruppo di ragazzi tra i 17 e i 35 anni, di cui Simone fa parte, che occupano spazi vuoti, dormienti, per rianimarli con un progetto diverso di volta in volta.
Simone Saccucci racconta storie in compagnia, e a volte le compagnie possono essere anche molto conosciute. Nel giugno 2014 la sua voce di narratore si è intrecciata con quella di Erri De Luca, cantastorie d’eccellenza. « Erri De Luca è prima di tutto un uomo. Questo mi è piaciuto. Il suo modo di raccontare poi è un togliere e questo secondo me è un fidarsi della storia. Quando si aggiunge troppo tante volte significa che non ti fidi di ciò che stai raccontando».
Simone Saccucci collabora con Radio24 e Il Sole 24 Ore curando una rubrica dal titolo Cartoline dalla periferia. Rai Radio 3 Teatro e la BBC Uk hanno proposto una monografia del suo lavoro in una miniera di travertino e in un cementificio.
«La periferia, spesso, sembra un fungo che oggi c’è, ieri non so, domani magari me ne potessi andare. Forse un sentirsi con uno ieri potrebbe essere utile o almeno per me lo è stato».
«Ho poi continuato a raccontare e cantare storie, oggi ne sono consapevole, per fare pace con il mio territorio – periferia ad est di Roma – e parallelamente con la mia vita».
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