Nati a San Miniato (Pisa) a due anni di distanza l’uno dall’altro, nel 1931 e nel 1929, da una famiglia di ideali antifascisti, Paolo e Vittorio Taviani frequentano rispettivamente le facoltà di Lettere e Legge presso l’Università di Pisa. La passione per il cinema diventa negli anni un legame indissolubile tra i due fratelli, che, insieme all’amico partigiano Valentino Orsini, organizzano e allestiscono fin da giovanissimi spettacoli e proiezioni cinematografiche tra Pisa e Livorno. Abbandonati gli studi universitari e trasferiti a Roma nel 1954, Paolo e Vittorio compiono i primi passi nell’industria cinematografica della capitale collaborando come aiuto registi alle produzioni di documentari impegnati, tra cui San Miniato luglio ’44 (1954), con il contributo dello sceneggiatore Cesare Zavattini, e L’Italia non è un paese povero (1960) insieme all’olandese Joris Ivens. Il loro primo lungometraggio, Un uomo da bruciare (1962), diretto ancora con Valentino Orsini, si aggiudica nello stesso anno il Premio della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia.
Apprezzati in tutti i più importanti Festival del Cinema d’Europa, da Berlino a Cannes, i fratelli Taviani si sono sempre distinti per il pregevole connubio tra cinema di qualità e di denuncia sociale, che li ha portati a ottenere riconoscimenti come La Palma d’Oro nel 1977 con Padre padrone, o il David di Donatello per La notte di San Lorenzo nel 1983. Ormai Maestri del panorama culturale italiano, Paolo e Vittorio ancora oggi sono autori di una feconda produzione cinematografica come testimoniano l’attualissimo dramma Cesare deve morire (2012) e una innovativa interpretazione del Decamerone in Maraviglioso Boccaccio (2015).
Sospesi tra realismo e finzione, tra politica e letteratura, tra dramma e ironia, i fratelli Taviani hanno saputo rappresentare con grande intensità le sfaccettature e le trasformazioni di una Italia viva, pulsante e in continua evoluzione. Ispirandosi al grande cinema neorealista di un Maestro come Roberto Rossellini e guardando con disincanto alla cruda realtà che ci circonda, Paolo e Vittorio Taviani raccontano ancora oggi la società con gli occhi e le parole dei grandi narratori del passato, creando un importante sodalizio tra storia e attualità. L’infelicità dell’uomo moderno si va a sovrapporre al destino dei personaggi di Lev Tolstoj, Giovanni Boccaccio e Luigi Pirandello, coniando un nuovo e universale linguaggio poetico. La Storia sembra prendere vita e i protagonisti della nostra quotidianità diventano eroi letterari di un mondo duro e indifferente. Guerre, vittime, fughe e riscatti sociali sono solo le tappe di una Storia impetuosa che procede per contraddizioni e che ha ancora molto da dire all’uomo dei nostri giorni.
In particolare, La Masseria delle allodole (2007), liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Antonia Arslan, è forse uno degli esempi più brillanti del complesso rapporto tra Storia e individui, nel racconto di una delle pagine più oscure e ancora irrisolte del Novecento: il genocidio degli Armeni. Senza scivolare in una generica commozione, Paolo e Vittorio Taviani ci mostrano l’odio e la violenza di una grande tragedia visti dall’ottica di una semplice famiglia di campagna, lasciando spazio ai sentimenti di una piccola comunità dell’Anatolia.
Accanto alla riscoperta della Storia come legge di sviluppo della realtà, è la politica la seconda importante fonte d’ispirazione del cinema dei due registi toscani. In particolare, la travagliata parabola della Sinistra in Italia è linfa vitale delle loro pellicole. Gli ideali di una società in fermento diventano, infatti, sfondo e filone di un mosaico di vicende umane diverse, come per esempio accade ne I sovversivi (1967), che sembra già anticipare la contestazione studentesca del ’68. Il film va a indagare le dinamiche dell’incrocio e dello scontro tra soggettività e collettività, tra il dramma del conflitto interiore e l’uniformarsi al pensiero di molti. Per i protagonisti, tra cui un indimenticato Lucio Dalla nel ruolo di Ermanno, la morte del segretario del Partito Comunista Palmiro Togliatti nell’agosto del 1964 rappresenta la perdita di un punto di riferimento non solo politico, ma anche personale. Sarà una nuova ricerca individuale a dare risposte a una travolgente stagione politica. Il cinema dei fratelli Taviani si propone, quindi, di parlare di realtà e di lotta sociale senza rinunciare a quella suggestione letteraria sospesa tra incanto e classicità. Oltre a ispirarsi ai maggiori capolavori della letteratura europea come Le affinità elettive (1996), tratto dall’omonima opera di Johann Wolfgang von Goethe, la poetica dei due registi è pregna di cultura greca, dal titolo del film Kaos (dall’antico: Χάος) alle ambientazioni dal sapore arcaico di Sotto il segno dello scorpione (1969), da una capacità evocativa di bellezza delle immagini, a un’utopia dai tratti epici e mitologici, senza dimenticare una significativa alternanza di monologhi e narrazioni corali. Il taglio drammaturgico, quasi teatrale, di cui è pervasa la loro arte va a fondarsi su quel senso di decadenza tipico della tragedia attica, dove i personaggi contrappongono alla morte il sogno di rivoluzione.
Il film della settimana
Cesare deve morire
Cesare deve morire (2012) ha le caratteristiche di un documentario e lo spirito di un grande capolavoro cinematografico. È la storia della nascita di un inusuale laboratorio teatrale tra le mura della sezione “alta sicurezza” del carcere di Rebibbia di Roma, dove i detenuti, molti di loro ergastolani, diventano gli attori protagonisti del Giulio Cesare di William Shakespeare: le battute della tragedia cambiano ritmo e prendono nuova vita, declamate nei più disparati dialetti. Nel cast, naturalmente tutto maschile, spicca Salvatore Striano, che ha proseguito il cammino di attore iniziato dopo la sua uscita dal carcere nel 2006, partecipando anche al film di Matteo Garrone Gomorra. L’uso del bianco e nero rende ancora più drammatica e scarna la narrazione cinematografica in cui le storie di violenza, sopraffazione, mafia dei protagonisti si vanno a intrecciare alle vicende e ai destini di Bruto, Cassio e Cesare in una sorta di corso e ricorso storico, in un teatro che supera i confini della realtà e che diventa nuova dimensione dell’anima. L’arte diviene unico mezzo per riconquistare la libertà e ritrovare la propria umanità. Grazie a questa appassionante e coraggiosa produzione, nel 2012 l’Orso d’Oro di Berlino dopo vent’anni è tornato finalmente a premiare il cinema italiano.
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