Il pane perduto di Edith Bruck è l’ultimo libro dell’autrice ed è tra i finalisti dell’ambito premio Strega. È l’ultimo libro, forse davvero quello conclusivo della carriera della Bruck e lo si sente fin dalle prime righe. In effetti l’autrice ormai ha 89 anni e un’esperienza di vita alle spalle molto particolare e tragica: infatti, da ragazzina venne deportata nel campo di sterminio di Aushwitz in quanto ebrea ungherese, ma riuscì a salvarsi. Il lascito dell’esperienza ha permeato tutta la sua vita, dal momento che fin dal primo istante fuori dall’Inferno la sua volontà è stata quella di scrivere, di ricordare, di sensibilizzare un mondo che, specialmente nell’immediato dopoguerra, sembrava voler dimenticare.
Noi non abbiamo né il Purgatorio né il Paradiso ma l’Inferno l’ho conosciuto, dove il dito di Mengele indicava la sinistra che era il fuoco e la destra l’agonia del lavoro, gli esperimenti e la morte per la fame e il freddo. Perché [Dio] non hai spezzato quel dito?
Una vita, una tragedia, una professione, un mandato: tutto converge in un finale, un epilogo, che però implora ancora un po’ di tempo, magari l’eternità, purché la memoria continui e non si spenga con le ultime persone che quell’abominio lo hanno provato sulla loro pelle. Insomma, Il pane perduto pare essere un po’ la riflessione finale sull’accaduto, come quella di un altro grande scrittore e sopravvissuto della nostra letteratura, Primo Levi, con I sommersi e i salvati. Allo stesso tempo però qui emerge un forte vitalismo sia dell’autrice che della parola, che non vuole soltanto relegare sé stessa in una dimensione puramente testimoniale, ma andare oltre, al di là, e diventare l’ultimo manifesto di chi, nonostante tutto, ha ancora la forza di gridare in faccia alla morte la parola «vita».
Ne «Il pane perduto» si parla solo di Shoah?
Questa autobiografia non parla solo dell’esperienza nel campo di sterminio. Aushwitz/Dachau e la cosiddetta “marcia della morte” sono solo alcune tappe di questo libro, perché qui si parla della vita dell’autrice, di tutta la sua vita. Tuttavia l’esperienza dello sterminio si pone da crocevia, tra un prima e un dopo.
E in questo senso il “prima” è la vita che la Bruck conduceva con la propria famiglia in Ungheria prima dell’arrivo della Gestapo, prima che bussassero alla loro porta e li portassero via. Ed è la vita di una normale ragazzina che amava scrivere e andare a scuola, ed era sempre alla ricerca dell’affetto di una madre molto dura, poiché le mancanze economiche, causate anche dalle leggi razziali, la costringevano a dover ogni giorno inventare il modo per sopravvivere.
Poi c’è il “dopo”, quel momento in cui ci si ritrova fuori, davanti ad un soldato americano (aveva completato la marcia della morte ed era arrivata già nell’Europa occidentale) che dice «you are free… freedom». E tutto improvvisamente finisce. Come se niente fosse accaduto, tutto risucchiato da un passato che appare remotissimo, ma è soltanto il giorno prima. Ed è qui che l’incontro con una realtà che non sa, non capisce, non ha provato lo stesso dolore inumano, e che nel frattempo ha soltanto continuato ad andare avanti sperando che prima o poi la guerra finisse, diventa complicato. Un mondo che non ha visto il proprio vicino morire per un tozzo di pane o per un dito puntato. Un mondo che non può sapere e in molti casi non vuole sapere, evita, chiude gli occhi di fronte a chi nascosto nei propri ha invece ancora le atrocità dello sterminio e l’abisso della morte. Un “dopo”, quel “dopo”, che ha portato quasi tutti i sopravvissuti che lo hanno poi raccontato nei libri a porsi la domanda: e ora?
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E ora c’è da chiedersi se ha avuto senso non morire, se lo si meritava o meno. Tutte domande che fino al giorno prima non toccavano il sopravvissuto, poiché come scrive anche Levi, la condizione nel lager era una condizione che lasciava solo due alternative a cui pensare: la vita e la morte. E non vi era tempo per altro, per un dopo, vi era solo il momento, la sopravvivenza e la vita che andava preservata. Gioia, pianto, dolore erano emozioni, e chi è portato alla condizione primitiva, animalesca, perché la condizione umana gli è stata tolta da un numero sul braccio, non ha tempo per pensare al dopo. Ma ad un certo punto quel dopo per qualcuno, per quei pochi che sono rimasti in vita, è arrivato e ognuno ha risposto a suo modo. C’è chi si è suicidato, c’è chi lo ha nascosto, e poi c’è chi, come la Bruck, di fronte al soldato americano sorridente e un po’ sprezzante, guardandosi indietro, guardando la polvere e i corpi di chi era stato ucciso, ricordandosi i sussurri di quegli ultimi moribondi scheletrici che le SS fecero accatastare in quelle terribili stanze e che dicevano tra gli ultimi sussulti di vita, mentre venivano trascinati nel fango, «ricordateci, se sopravvivete raccontate cos’è accaduto», decise di scrivere. Di scrivere perché nulla doveva essere dimenticato e perché gli uomini, il mondo, le ideologie, i partiti, tutti ricordassero a cosa può arrivare la banalità e l’ignoranza. La Bruck ha deciso questo nella sua vita e Il pane perduto ne è l’ultima tappa.
Cosa accade dopo?
Il “dopo” vede una serie di viaggi in giro per l’Europa alla ricerca dei pezzi del puzzle andati perduti nel lager. Così la Bruck e la sorella Judith riescono a ritrovare due sorelle che si erano salvate e non erano finite nel lager. Qui la realtà del dopo si infrange subito sulle sopravvissute: l’atteggiamento delle sorelle è disinteressato. Non riescono a comprendere e forse nemmeno lo vogliono. E allora ritrovano il fratello: lui sì che era sopravvissuto nel lager e aveva visto il padre risucchiato dall’oblio dello sterminio coi suoi occhi. Lui poteva capire. Ma la vita del dopo, soprattutto in quella realtà indifferente alla tragedia, chiede impegni lavorativi, spese, costi, una nuova vita dentro un mondo in cui bisogna in qualche modo sopravvivere. Ed è così che la delusione avanza.
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Di fronte a questa realtà c’è chi ritrovandosi senza più una patria, sentendosi a casa soltanto coi “fratelli del lager” come li chiama la Bruck, preferisce cogliere l’occasione che in quegli anni si profilava, ossia uno Stato ebraico, Israele. Dove i vicini di casa sanno e hanno provato, non sono indifferenti. E tra questi c’è anche prima Judith, poi anche la stessa Bruck.
La parola patria non l’ho mai pronunciata: in nome della patria i popoli commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola “patria”, come tante altre parole: “mio”, “zitto”, “obbedisci”, “la legge è uguale per tutti”, “nazionalismo”, “razzismo”, “guerra” e quasi anche la parola “amore”, privata della sua sostanza.
Ma la difficoltà di vivere in un Paese ancora tutto da costruire, con una sua lingua tutta particolare, scoraggia la ragazza, che decide di inseguire il suo sogno di ballerina e scrittrice. Così finisce prima in Svizzera e poi finalmente, nella meravigliosa meta finale: l’Italia. Ed è qui, tra le vie di Roma, che inizia davvero la carriera di scrittrice.
«Il pane perduto»: un appello al nostro tempo
Da figlia adottiva dell’Italia, che mi ha dato molto di più del pane quotidiano, e non posso che essergliene grata, oggi sono molto turbata per il Paese e per l’Europa, dove soffia un vento inquinato da nuovi fascismi, razzismi, nazionalismi, antisemitismi, che io sento doppiamente; piante velenose che non sono mai state sradicate e buttano nuovi rami, foglie che il popolo imboccato mangia, ascoltando le voci grosse nel suo nome, affamato com’è di identità forte, urlata e italianità pura, bianca; che tristezza, che pericolo.
Verso la fine de Il pane perduto la Bruck fa una considerazione sulla nostra epoca e sulla situazione socio-politica del nostro Paese e continente. Come si potrà intendere dalla citazione, da parte di chi ha subito sulla propria pelle il nazifascismo, l’orrore dell’estremismo di destra, del populismo e del nazionalismo, ora si preoccupa di fronte ad un’Europa e un’Italia dove la xenofobia, l’omofobia e l’odio in generale pullulano sempre di più nella coscienza popolare.
Ecco che continuare a ricordare a cosa un certo tipo di propaganda politica può portare, che cosa sta in fondo a quella catena che parte da un insulto detto per ridere, oggi è più che mai essenziale, in un tempo dove la rabbia porta ancora ai governi della nostra Europa personaggi terribili e senza scrupoli.
Lettera a Dio
L’ultimo capitolo de Il pane perduto è molto struggente. La Bruck scrive una lettera a Dio, senza rabbia, senza cattiveria, ma chiedendogli soltanto una cosa: di lasciarle ancora un po’ di tempo per illuminare le giovani coscienze, per raccontare ancora un po’ che cosa possa essere il dolore che le è stato destinato dalla vita, nelle scuole e nelle università, per provare ancora, in extremis, a salvare il mondo dal terrore che lo sta ancora attaccando.
Dove le domande più frequenti sono tre: se credo in Te, se perdono il Male e se odio i miei aguzzini. Alla prima domanda arrossisco come se mi chiedessero di denudarmi, alla seconda spiego che un ebreo può perdonare solo per se stesso, ma non ne sono capace perché penso agli altri annientati che non perdonerebbero me. Solo alla terza ho una risposta certa: pietà sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio (…)
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