Quando si parla di classici è sempre facile cadere nel già detto, tanto più se questi classici sono colonne portanti della nostra cultura e di cui gli scaffali di ogni buona biblioteca pullulano di saggi critici di eminente studiosi. La problematica – e con essa la difficoltà – cresce esponenzialmente se il “classico” in questione non lo è solo perché universalmente riconosciuto nel canone della Letteratura, ma proprio perché appartenente all’età classica, ovvero l’universo greco-latino. Si è già parlato diffusamente attorno alla titanica questione dell’utilità del classico nell’età “post-moderna”. Oggi proviamo a rispondere a un’altra domanda ormai secolare: a cosa serve leggere un’opera “classica”, così lontana nel tempo? Cosa un autore vissuto in una realtà completamente diversa dalla nostra può ancora dire all’uomo “comune”, ovvero ad un non-filologo? La questione non è da sottovalutarsi; comprendere perché determinate opere sono considerate da grandi pensatori e intellettuali di ogni tempo intramontabili, nonché imprescindibili pilastri del sapere umano è fondamentale per apprezzarle sin nel profondo e conduce alla consapevolezza profonda che esse non debbano e non possano sparire. Per cercare di portare alla luce quale possa essere il patrimonio umano presente nell’antichità, uno degli autori che più può essere d’aiuto è Orazio.
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Orazio fu un uomo di umilissime origini, figlio di un liberto divenuto esattore delle tasse, che grazie ai sacrifici e agli insegnamenti di umiltà del padre riuscì ad avere un’istruzione eccellente e a diventare uno degli intellettuali e scrittori più apprezzati nel secolo d’oro della letteratura latina: l’età augustea. Il periodo storico in cui si colloca la vicenda biografica di Orazio fu uno dei più travagliati della storia romana, ovvero la crisi politica della Res Publica, le guerre civili, le espropriazioni dei terreni ai privati, l’emergere di singole personalità carismatiche che, aggirando le leggi e le istituzioni tradizionali, ebbero l’abilità e l’intelligenza politica di accentrare il potere nelle proprie mani: Roma si trasforma e diviene un Impero. Tutto ciò in un clima di profondo scoraggiamento umano, corruzione e disordine sociale, ma anche morale. La religio tradizionale inizia a essere intaccata dalle nuove filosofie e dai culti orientali; il mos maiorum, ovvero l’insieme dei costumi tradizionali che regolamentavano per convenzione la vita del cittadino romano, pare essere non solo dimenticato, ma svilito.
A ben vedere il panorama non è poi tanto lontano dalla crisi dell’uomo contemporaneo (certamente tenendo sempre presente razionalmente il grande gap culturale tra il nostro mondo e la Roma del I secolo a.C.): incertezza, paura, angoscia, individualismo, amore per il lusso e per tutto ciò che è materiale, abbandono dei valori tradizionali, messa in dubbio di ogni cosa, dalla religione, allo Stato, alla propria identità.
Orazio sin da giovane sente fortemente questa crisi e cerca dapprima di rispondervi con verve, ironia e sagacia nelle Satire (Sermones) e successivamente negli Epodi, dunque con una poesia estremamente pungente, dai toni accesi, che vuol essere denuncia di un mondo che si sta disfando nel vizio. Ma l’opera in cui Orazio riesce ad esprimere pienamente quale egli ritiene che sia il suo ruolo nel mondo sono i Carmina, cioè i tre (poi quattro) libri di poesia lirica. Attraverso quest’opera il poeta romano è in grado di innalzare un meraviglioso monumento non solo al suo tempo, al suo credo filosofico-letterario e a se stesso, ma al genere umano.
Dopo gli esperimenti precedenti di individuazione di mali della società e di tentativo di re-indirizzamento dell’uomo, Orazio comprendo che egli, in quanto poeta, deve utilizzare la poesia al massimo delle sue potenzialità, recuperando quello che fu il suo ruolo alle origini, ovvero esprimere ciò che l’uomo, inserito nel suo tempo e nel suo spazio, prova, sente e vede. Questa è la poesia lirica. Orazio, da uomo di profonda cultura qual era, recupera ciò che fu la poesia lirica nella Grecia arcaica, unendo ad essa immagini e dottrine prettamente ellenistiche e vestendo la sua cultura con la sua personale esperienza, sensibilità e originalità.
Ciò che rende immortale la poetica di Orazio sono i temi da lui trattati e lo stile. Egli parla dell’uomo e conosce l’uomo sin nei più segreti meandri della sua anima. Egli è in grado di creare, con uno stile semplice e raffinato, nel quale ogni parola è esattamente dove deve essere e proprio per questo brilla e si riempie di ogni sfumatura di significato, immagini eterne. Orazio è stato definito da un grande studioso quale Alfonso Traina il poeta della cura, ovvero dell’ansia. Questo perché egli è consapevole di una delle più grandi verità che riguardano l’uomo: il tempo passa e si deve morire. E così nascono alcune tra le più belle pagine dei suoi Carmina, dove la caducità della vita umana è sempre presente come un’ombra oscura che minaccia il piccolo uomo: non importa quanto si sia ricchi, influenti, potenti; la morte rende tutti i uguali:
Non illuderti d’essere immortale, t’ammoniscono
gli anni e i giorni che passano in un attimo.
Mitiga il vento il gelo a primavera e questa
la estingue l’estate che fugge,
poi quando l’autunno avrà dato i suoi frutti e le biade,
torna l’inverno senza vita.
Ma rapida la luna ripara i danni del cielo:
noi quando cadiamo nel buio
dove si trovano Enea, Anco e il ricco Tullo,
non siamo che polvere e ombra.
[Ode IV, 7, vv. 7-16, trad. di M. Ramous]
Il confronto tra l’eterno ritorno di cui può godere la Natura accentua il sentimento di termine a cui, invece, è destinata la vita umana. Di fronte a ciò il messaggio che traspare dalle pagine di Orazio è estremamente attuale: ciò che importa davvero nella vita è la semplicità delle cose autentiche. Abbracciando una personale rielaborazione delle filosofie stoica ed epicurea Orazio è in grado di innalzare meravigliosi inni alla bellezza della vita e della giovinezza. Poiché l’uomo è moriturus, cioè destinato a morire, ciò che conta è saper carpire e dare significato fino in fondo all’istante in cui è vivo e saper godere della più bella stagione della vita, ovvero la giovinezza. Orazio è allora il poeta che, nel tentativo instancabile di salvaguardare i suoi contemporanei da una vita superficiale e vuota, insegna a loro, ma anche a noi, che est modus in rebus, ovvero c’è un limite nelle cose, che bisogna vivere aequa mente, essendo sempre pronti ad un eventuale rovesciamento della sorte, ma senza darne la colpa a nessuno, perché il Caso non prevede alcun supervisore, nemmeno gli dèi. L’uomo che avrò saputo vivere riempiendosi dell’attimo consapevole e nell’amicizia (unico vero autentico sentimento contemplato da Orazio), potrà dire alla fine della sua vita, senza rimorso, di aver vissuto.
Ecco il vero significato del tanto chiacchierato carpe diem, termine usato talvolta a sproposito per giustificare qualsiasi tipo di azione, soprattutto se “alla leggera”. Carpe diem non significa che si può fare ciò che si vuole: esso unisce in sé la tragica consapevolezza della propria precarietà e della fuggevolezza del tempo e l’intenso amore per la vita, una vita che però deve essere “candida”, come la destinataria dell’ode, Leuconoe (dal greco: mente bianca), cioè semplice, priva di bramosia e di superstizione.
Tu non chiedere, è empio sapere!, quale sorte gli dei
destineranno a me, quale a te, Leuconoe, e non consultare gli astri Babilonesi.
Quanto è meglio, invece, rassegnarsi, qualsiasi cosa accadrà,
sia che Giove ci conceda molti altri inverni, sia che questo,
che sfianca il mar Tirreno infrangendolo contro l’argine delle scogliere, sia l’ultimo!
Sii saggia, annacqua il vino e sfronda la lunga speranza, che il tempo della vita è breve.
Mentre parliamo, invidioso fugge via il tempo.
Cogli l’attimo, non credere al domani.
[Ode I, 11]
La serenità con cui Orazio, nonostante l’angoscia esistenziale di cui sa farsi portavoce, riesce a guardare alla vita non nasce dal niente. Essa affonda le radici nella sua immensa cultura e nelle sue esperienze, che sa rielaborare in poesia. L’opera di Orazio è un classico, di quelli che non devono essere riposti su polverosi scaffali, ma che andrebbero sfogliati di giorno in giorno, accompagnando ancora oggi la crescita di un uomo che voglia dirsi davvero “saggio”. Perché tra quelle parole si trova, assieme alla mitologia, alla cultura antica, che è poi l’origine della nostra, anche l’insegnamento essenziale per un’esistenza che possa dirsi felice.
E alla fine dei conti, se ciascuno saprà cogliere il frutto dei suoi giorni, coltivandoli con intensità nella quotidianità senza rimandare ad un domani perennemente incerto, potrà dire anche lui: non omnis morirar (non tutto di me morirà), nel ricordo che si tramanda nel tempo grazie ai frutti di una vita davvero “compiuta” che verranno, di generazione in generazione, raccolti.
Immagine di copertina: commons.wikimedia.org
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