Il 27 luglio Netflix ha rilasciato la settima e ultima stagione della serie Orange is The New Black. Prodotta da Lionsgate Television, lo show, nato nel 2013, è liberamente tratto dal libro di Piper Kerman Orange Is the New Black: My Year in a Women’s Prison, edito in Italia da Rizzoli Controtempo (acquista).
Piper è una tipica WASP (White Anglo-Saxon Protestant) del Connecticut: bionda, di buona famiglia e con una laurea allo Smith College di Northampton. Proprio al college conosce Alex, un’affascinante donna dai capelli corvini che la convincerà a trasportare una valigia di cosiddetti narcodollari, soldi ottenuti dal commercio di droga. Inizia da qui il viaggio di Piper Chapman, questo il nome della protagonista – anche se di veri protagonisti non possiamo parlare all’interno della prigione federale di Litchfield. Dietro le mura della prigione si nasconde un universo fatto di donne, di vite, di odio profondo e di amore sconfinato.
Guardando Orange is The New Black non si ha l’impressione di vedere una serie come le altre, non ha un percorso lineare, non ha protagonisti o antagonisti. Lungo il corso di sette stagioni, ogni personaggio mostra tutto ciò che la vita ha deciso di buttargli contro: infanzia tragica, occasioni perdute, dolore, e una comune conclusione per ognuna: il carcere.
Lentamente entriamo nel mondo di Daya Diaz (Dasha Polanco), giovane promessa del disegno cresciuta in una famiglia di spacciatori, con una madre ambiziosa ed egoista, con la quale deve confrontare la sua permanenza in prigione. Vedremo il suo cuore indurirsi, l’amore per l’arte lasciare spazio alla cieca ricerca di potere, all’interno di un luogo dove bisogna mordere per non essere morse. Come lei Maria (Jessica Pimentel) e Gloria (Selenis Leyva), madri affettuose e donne inasprite dal carcere e dalle sue regole.
Ci affezioniamo alle caratteristiche comiche e drammatiche di figure come Nicky Nichols (Natasha Lyonne), la sarcastica tossicodipendente in cerca di una figura materna; Suzanne Warren (Uzo Aduba), la ragazza con disturbi psichiatrici scrittrice impareggiabile di romanzi erotici ambientati nello spazio; e ancora il duo di influencer carcerarie Flaca (Jackie Cruz) e Maritza (Diane Guerrero), che anche nelle situazioni più estreme sanno come ottenere capelli e make-up perfetti.
Uno spaccato di un mondo esclusivamente femminile, dove non esistono due corpi uguali o un canone di bellezza adatto a tutte le minoranze etniche mostrate. Donne che ritagliano spiragli di dignità e orgoglio in un ambiente dove anche solo farsi una doccia è considerato un privilegio. Solamente donne, con il loro bagaglio di storie e la crescita individuale che lo spettatore vede svolgersi per ogni personaggio, piccolo o grande che sia, legandolo ad ognuna di quelle detenute come ad un’amica, una sorella, una madre.
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Una capacità di scrittura così spiccata e completa è molto difficile da trovare nei prodotti seriali, specialmente per show così longevi. Le stagioni sono piccole perle colme di riflessioni sulla vita, la morte e la condizione umana. Se nella quarta e quinta stagione è molto forte la denuncia sui soprusi delle guardie carcerarie e il difficile rapporto della comunità nera con la società americana (forte il richiamo al movimento Black Lives Matter), la settima e ultima stagione punta fermamente il dito contro le disumane politiche anti immigrazione del governo Trump, mostrando le storie di donne detenute nei dormitori della ICE (U.S. Immigration and Customs Enforcement), descrivendo il dramma delle retate e il totale isolamento in cui le donne vivono fino ai processi che le deporteranno nei paesi d’origine. Un tema che ha visto molto di recente il suo tragico svolgimento in Mississippi, dove si è verificata la più grande retata di immigrati irregolari della storia americana.
Orange is The New Black non è mai puro intrattenimento. È una richiesta di prendere coscienza, un urlo lanciato da chi non può gridare. Lo spettatore si scopre emotivamente distrutto su più fronti: non solo per le vicende legate ai personaggi principali del dramma, ma per la società reale in cui esse lottano per sopravvivere e contro la quale molto spesso sbattono rovinosamente. Piper, Alex, Nicky, Suzanne, Blanca, Taystee, Cindy, Maria, Daya… Sono nomi di personaggi fittizi, ma che portano sulle spalle vicende reali di donne reali, dimenticate dentro le spesse mura di una prigione federale.
«Rember all their faces/ remember all their voices» recita un verso della canzone di Regina Spektor scelta per l’intro della serie, dal titolo tutt’altro che casuale: You’ve Got Time. Un invito allo spettatore a ricordarsi di quei volti, di quelle storie, di quelle vite.