fbpx
oltre-umano filosofia

«Generate parentele, non bambini!»: l’oltre-umano tra filosofia e performativo

dalla newsletter n. 43 - ottobre 2024

6 minuti di lettura

Il concetto di “oltre l’umano” è stato ed è indagato da sempre e interpretato nelle sue sfumature più disparate. Da un super uomo con capacità per noi forse nemmeno immaginabili, al concetto di cyborg, passando per realtà future ipotetiche frutto dei mutamenti del presente. Scienza, religione, filosofia, arte hanno affrontato questo tema, fornendo scenari più o meno possibili e desiderabili.

In particolare a partire dalla rivoluzione tecnologica che sta interessando la nostra civiltà da oltre mezzo secolo a questa parte, numerosi sono gli intellettuali che mettono in discussione i modelli sino ad allora dati per assunti e immutabili e propongono un futuro talvolta profondamente diverso, che vada oltre l’uomo, oltre l’Antropocene.

L’arte per un cambiamento della società

A tutto ciò si intrecciano, quasi inevitabilmente, diverse linee di ricerca artistiche che, come di consueto dalle Avanguardie in poi, non riguardano solo l’ambito artistico, ripudiando il concetto di “arte per l’arte” e ritenendolo sostanzialmente inapplicabile alla realtà odierna. Queste sperimentazioni, infatti, in particolare diffuse in ambito performativo, coinvolgono in maniera inscindibile scienza, sociale, filosofia. L’arte si fa forma e strumento di resistenza e lotta rifiutando le frontiere disciplinari, teorizzando e mettendo in opera una ricostruzione delle proprie pratiche come paradigmi, modelli di comportamento che si traducono nel linguaggio performativo.

Come per Bertold Brecht, così anche per pensatori come Richard Schechner la politica è ovunque e dunque non esiste alcuna possibilità di rifugiarsi nel dominio della teoria artistica astratta e lontana dalla realtà. Lo spettacolo, il teatro, l’arte performativa non si pongono più (o non solo) come mezzi di intrattenimento, ma anche (e soprattutto) al servizio della comunità e dei suoi propositi, delle sue necessità.

Il performativo diventa rituale, terapia, critica sociale e porta verso un nuovo ordine socio-politico. Nascono piccole realtà, talvolta effimere, frammentarie, contro-culturali, proprio in un momento in cui il modello capitalista diventa centrale e intrinseco alla società occidentale. Teorici, artisti, rivoluzionari si oppongono a questo andamento attraverso atti linguistici e performativi, con gerarchie capovolte ed eliminando le grandi narrazioni. Il cambiamento reale a vantaggio della gente comune era evidentemente ormai un’utopia, perciò viene raffigurato e studiato.

L’arte non è più estetica ma strumento di riflessione sulla società e soprattutto su se stessa, sul suo ruolo all’interno della società stessa e del mondo. Soprattutto, l’arte non è più isolata in un tempo o uno spazio, ma permea l’esistenza di ciascuno, in particolare se pensata nella sua forma performativa. I corpi si fanno (o in parte sono sempre stati) performativi e portano avanti più o meno consapevolmente regole e paradigmi puramente sociali e arbitrari. I performance studies, dunque, iniziano a essere visti come un’opportunità per incentivare la ricerca su vari paradigmi di pensiero, sapere e rappresentazione alternativi ai paradigmi dominanti.

Leggi anche:
L’aura nelle nuove tecnologie secondo Walter Benjamin

Donna Haraway e la critica al dualismo

Una delle figure più interessanti, il cui pensiero ben si accorda con quello del già citato Richard Schechner e con tutte le rivoluzioni artistico-performative brevemente affrontate, è senza dubbio Donna Haraway. Tra le pensatrici più influenti nel campo degli studi di genere, della scienza, della tecnologia, delle dinamiche sociali, Donna Haraway ha ridefinito il concetto di “oltre-umano” attraverso le sue opere – basti pensare a Manifesto Cyborg (1985) e Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene (2016). La sua riflessione mette in discussione le tradizionali distinzioni tra natura e cultura, tra uomo e macchina, aprendo un dibattito su cosa significhi essere umano nell’era della tecnologia avanzata.

Donna Haraway introduce nelle sue riflessioni il concetto di cyborg, figura che ormai per antonomasia simboleggia la fusione tra l’umano e il non-umano, divenendo icona della post-modernità. Interessante notare come questo ibrido sfidi con la sua sola esistenza (teorica) le nozioni rigide di identità, genere e specie fortemente radicate nella nostra società. Donna Haraway, così come Judith Butler e, lateralmente, Schechner, sostiene che l’identità non è fissa, ma è fluida e costruita socialmente mediante una serie di movimenti, azioni ripetute che possiamo definire performative.

L’idea di cyborg rappresenta, quindi, una liberazione dalle categorie oppressive e binarie arbitrariamente definite e intrinsecamente artificiali. E la critica al dualismo è proprio uno dei punti centrali del pensiero di Donna Haraway. La distinzione tra umano e animale, tra organismi viventi e macchine, è una costruzione culturale che ha giustificato molte forme di oppressione e causato morte e distruzione. La studiosa invita a superare queste divisioni, riconoscendo l’interconnessione tra tutte le forme di vita e tecnologia presenti sul pianeta, un approccio particolarmente rilevante nel contesto della crisi ecologica, dove la separazione tra uomo e natura è diventata insostenibile.

Riprogettare l’umanità

Donna Haraway non propone semplicemente un rifiuto dell’umano, ma piuttosto una riprogettazione della sua concezione. L’idea di “oltre-umano” implica un riconoscimento delle interazioni complesse tra specie, tecnologie e ambiente. In questo contesto, l’umanità non è un punto di arrivo, ma un processo in continua evoluzione. Le sfide contemporanee, come il cambiamento climatico e le disuguaglianze sociali, richiedono nuove forme di pensiero che abbraccino il complesso tessuto delle relazioni. E sono proprio le relazioni al centro del testo Making Kin in the Chthulucene, nel quale Donna Haraway suggerisce che il futuro della nostra specie è intimamente legato alla cura e al rispetto per altre forme di vita, ponendo l’accento su un’etica della responsabilità collettiva e suggerendo nuove forme di famiglia, affetto, parentele (“fare kin“).

Quello che la studiosa fa è andare contro alle concezioni femministe tradizionali di opposizione e differenziazione, rivendicando invece la possibilità e necessità di riconoscersi tutti parte di un unico corpo, uomini e donne, umani e non umani. La generazione di parentele inusuali porterebbe, secondo Donna Haraway, a un benessere generale nel rispetto di tutte le realtà esistenti e conviventi sulla Terra. È una «pratica necessaria per imparare a vivere e a morire bene, l’uno con l’altro, in un presente così denso». Ciò a cui ciascuno è chiamato è dunque distruggere per poi ricostruire.

Chthulucene è una parola composta da khthôn e kainos e definisce infatti un’innovativa tipologia di dimensione tempo-spazio utile per imparare a vivere (e morire) insieme a ciò che ci circonda e ci compone. Ciò che Donna Haraway evidenzia è il fatto che il superamento delle ere identificate come Antropocene e Capitalocene non sia più una scelta individuale, ma un atto di assunzione di responsabilità necessario verso una Terra danneggiata e ferita dalla separazione messa in atto dall’Uomo. Terra che sta esaurendosi inesorabilmente. «Con-vivere e con-morire insieme all’altro nello Chthulucene» può essere una risposta a questa necessità.

Ed è proprio la generazione di parentele che vanno al di là della famiglia biogenetica o genealogica, o quantomeno l’affiancamento ad essa di altri tipi di parentele, a ribaltare il nostro punto di vista individuale, allargandolo, e a porci un problema in maniera evidente: verso chi siamo davvero responsabili?

Come sottolinea Donna Haraway, le femministe sono state le prime a rompere i presunti legami naturali tra sessualità e genere, razza e nazione, razza e sesso, classe e sesso, sesso e riproduzione, riproduzione e affetto. E questa frattura ha portato presto a elaborare teorie legate all’eco-giustizia multispecie, ovvero che possa coinvolgere, accogliere e tutelare la diversità della popolazione umana e non umana. Ciò sarebbe giustificato non semplicemente da una giustizia e un legame teorico tra le specie, ma anche e soprattutto da un fattore biologico concreto: siamo tutti, inevitabilmente, indissolubilmente legati. Le azioni degli uni ricadono, nel bene come nel male, sugli altri. La convivenza tra entità, specie è effettiva e profonda al punto tale che noi stessi, esseri umani, siamo composti, governati, regolati da entità che si possono definire altre e sono onnipresenti e necessarie, come i batteri. Per questo non ha più senso pensare al sistema come a una giustapposizione di creature a se stanti e differenti, quanto piuttosto a un assemblaggio interdipendente.

Camille e i Bambini del Compost

Il concetto di “oltre l’umano” di Donna Haraway rappresenta una sfida profonda e necessaria alle nostre idee di identità e interazione nel mondo contemporaneo. La sua visione, così come quella di numerosissimi studiosi che come lei si sono impegnati in questo senso, ci invita a esplorare nuove possibilità di esistenza in un contesto sempre più ibrido e complesso. Complessità teorica ma anche pratica, che però trova spesso nell’arte una rappresentazione utile alla comprensione e alla messa in atto (o in scena) dei comportamenti da adottare.

In questo senso, Haraway si spinge verso i confini artistici adottando lo strumento della fabula speculativa, mediante la quale si proietta in un futuro ipotetico e incerto. L’autrice racconta allora la storia di Camille, incarnazione di una nuova generazione non-ancora-nata e non-ancora-allevata di creature di specie a rischio che «coevolvono». Il futuro immaginato da Donna Haraway e dal filone femminista a lei vicino non è infatti un futuro post-umano, al cui centro, sebbene per evoluzione-negazione, ci sarebbe ancora l’Uomo, ma un futuro con al centro il compost, l’unione di tutti gli esseri, tutte le specie, unite in un destino e un ciclo della vita sostanzialmente infinito.

«Camille è una dei Bambini del Compost che maturano nella terra per dire no al postumano di ogni tempo», è un simbionte eco-cyborg che dà speranza. È il risultato di un esercizio di immaginazione di una realtà futura transpecie, dove una via per la rigenerazione ai danni causati precedentemente al sistema-Terra è possibile.


Illustrazione di Lucia Amaddeo

Questo articolo fa parte della newsletter n. 43 – ottobre 2024 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!

Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!

Rebecca Sivieri

Classe 1999. Nata e cresciuta nella mia amata Cremona, partita poi alla volta di Venezia per la laurea triennale in Arti Visive e Multimediali. Dato che soffro il mal di mare, per la Magistrale in Arte ho optato per Trento. Scrivere non è forse il mio mestiere, ma mi piace parlare agli altri di ciò che amo.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.