In Italia il diritto all’aborto è stato considerato un miraggio e, anzi, abortire era considerato un reato fino al 1978: procurarsi o causare un aborto era punito con la reclusione da uno a cinque anni, con ulteriori inasprimenti in caso di lesioni o morte della donna interessata. Negli anni Settanta però – in un clima di grande cambiamento e protesta, si pensi al divorzio nel 1970 – questo tema cominciò a scatenare molti dibattiti. Il Cisa, Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto, iniziò ad aprire consultori e a organizzare viaggi all’estero, in particolare in Olanda e in Inghilterra, dove grazie a delle convenzioni le donne potevano abortire a prezzi modici e con sicurezza. Nel 1975, il Cisa si federò con il Partito Radicale e in poco tempo una delegazione presentò alla Corte di Cassazione la richiesta di un referendum per abrogare tutti quegli articoli del codice penale riguardanti i reati d’aborto. Per la causa si raccolsero 700.000 firme.
Nel 1978, venne introdotto il diritto all’aborto con la Legge 22 maggio 1978, n.194, spesso semplicemente chiamata legge 194. Oggi la donna può quindi ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza (IGV) in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione, mentre tra il quarto e il quinto mese l’aborto è possibile solo per motivi terapeutici o per malformazioni del feto. Così recita il prologo della legge 194:
«Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».
L’IGV quindi non è un metodo contraccettivo, ma più semplicemente “l’ultima spiaggia”. Prima di arrivare all’aborto – un atto comunque non facile per una donna – dovrebbe esserci quindi un’educazione sessuale in grado di insegnare ai giovani (e non solo) l’importanza dei metodi contraccettivi, sia per evitare gravidanze indesiderate, sia per proteggersi da possibili malattie veneree. Una donna che però si ritrova a dover portare avanti una gravidanza non desiderata è – o meglio, dovrebbe essere – tutelata dalla legge. L’articolo 2 specifica che i consultori sono tenuti a informare l’interessata sui diritti e sui servizi di cui può usufruire, contribuendo a farle superare le cause che possono portare all’interruzione della gravidanza. Comunque, se la scelta è davvero quella di abortire, nei primi novanta giorni di gestazione è possibile farlo – in anonimato – per una donna che
accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.
Nel nostro paese è davvero così facile far valere questo diritto? Non del tutto, e la causa è principalmente l’obiezione di coscienza. Un medico può infatti scegliere se praticare un aborto o meno, agendo secondo la sua personalissima morale. Il concetto di obiezione di coscienza venne introdotto nel 1972, anno in cui la legge riconobbe il diritto di obiettare contro il servizio militare, e si estese poi ad altri campi, come la sperimentazione animale e l’aborto. Così recita l’articolo 9 della legge 194:
Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.
I medici obiettori che si rifiutano di garantire un servizio non devono quindi affrontare nessuna conseguenza dal punto di vista penale: non rischiano la radiazione dall’albo professionale, non rischiano il licenziamento e non rischiano nemmeno di dover pagare un risarcimento alla donna interessata in caso di mancata IGV. Soltanto in caso di pericolo di vita il personale sanitario è costretto – anche se obiettore – a interrompere la gravidanza e salvare la donna.
In Occidente, tutti gli stati in cui l’aborto è legale presentano questa piccola clausola sulla facoltà del medico di compiere tale operazione o meno, ma solo in Italia i livelli di obiezione sfiorano cifre altissime. Nel 2014 l’Europa ha richiamato il nostro paese, e in particolare le Marche, per l’alto tasso di obiezione che, a questi livelli, impedisce alla donna di esercitare un suo diritto. Al sud, i medici, ginecologi, ostetrici o anestesisti che si rifiutano di praticare l’IGV superano in alcuni casi il 90%, mentre nel nord Italia si sfiora comunque il 70%. In tutta la penisola, la percentuale non scende mai sotto il 50%, con una sola felice eccezione: la Valle d’Aosta, con solo il 16% di medici obiettori.
Che cosa fare quindi nel probabilissimo caso in cui un’intera struttura sanitaria sia composta da medici obiettori? In teoria la legge 194 pensa, seppur in modo non del tutto preciso, anche a questo:
Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale.
La donna in questo modo dovrebbe essere sempre tutelata, ma la realtà è ben diversa: spesso una donna che vuole abortire è costretta a vagare per più cliniche elemosinando un diritto che le spetta, senza contare il conseguente imbarazzo data la delicatezza di questi temi.
Oltre a un diritto negato in un momento molto difficile nella vita di una donna, il numero così alto di medici che rifiutano di praticare l’IGV fa sì che i pochi colleghi disponibili siano costretti a farsi carico del lavoro altrui dando molti turni di disponibilità per le emergenze e praticando un numero di aborti alto, un fatto indubbiamente poco piacevole anche per chi si ritiene un non-obiettore. Da libertà personale, l’obiezione di coscienza è ormai diventata un limitare la libertà altrui, un disservizio, un’ulteriore difficoltà sul cammino di chi già di per sé sta passando un momento molto turbolento – abortire non è psicologicamente facile, nemmeno per le donne che richiedono di farlo con decisione e coraggio.
Se è vero che la missione di un medico, e in particolare di un ginecologo o di un ostetrico, è quella di dare la vita, questa professione ha anche – purtroppo – dei lati oscuri che bisognerebbe prendere seriamente in considerazione prima di iniziare un lungo percorso nel settore. Si dovrebbe tenere conto che, per quanto poco piacevole, anche l’aborto è una delle mansioni previste. Ogni professione comporta dei doveri e dei lati non del tutto piacevoli che però non si possono rinnegare, soprattutto quando c’è in gioco la vita (perché tenere un bambino non desiderato cambia la vita) di una donna, non solo quella di un feto.
Gli italiani sembrano essere d’accordo sul fatto che l’obiezione di coscienza stia avendo effetti dannosi: un sondaggio Swg ha mostrato che il 63% del popolo italiano pensa che sia più importante tutelare il diritto all’aborto che il diritto di obiezione di coscienza dei medici. Il 22% pensa l’opposto, mentre il 15% non si è espresso.
La soluzione sarebbe quindi ridare alle italiane il diritto che spetta loro – quello di poter ricorrere con facilità (ma non con superficialità!) all’aborto se lo ritengono opportuno. È poi necessario favorire la contraccezione d’emergenza: la famosa pillola dei cinque giorni dopo è ora acquistabile, a detta dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), senza ricetta, ma sono molte le farmacie che si rifiutano di venderla e di conseguenza “correre ai ripari” continua a essere incredibilmente difficile e stressante. Non ultimo, sarebbe doveroso educare i giovani alla sessualità in modo che il numero di donne che richiedono di abortire sia sempre più basso. Da questo punto di vista, sembra che qualcosa si stia muovendo: la percentuale di aborti annui è calata da 17,2‰ del 1982 al 7,8‰ del 2012, ma c’è ancora molto da fare in questo senso.
L’aborto non è una passeggiata, né per le donne che scelgono di interrompere per i motivi più svariati una gravidanza, né per i medici che decidono di praticare l’intervento. Ognuno, dentro di sé, può maturare un personale giudizio sulla questione e, di conseguenza, scegliere se in caso di necessità ricorrere all’aborto o meno per quanto riguarda la propria persona. Quel che non è ammissibile è decidere sulla pelle degli altri: ogni donna deve avere la possibilità di interrompere una gravidanza nel più sereno e sicuro dei modi possibili se lo ritiene necessario. In Italia questa possibilità ci è ancora negata.
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