Dai produttori di Get Out, premio oscar 2018 per la miglior sceneggiatura originale, arriva il non altrettanto innovativo Obbligo o Verità. Film dall’atmosfera adolescenziale, e non per questo meno interessante, ma dallo svolgimento privo di mordente e forse troppo innamorato del proprio spunto iniziale.
«Obbligo o verità?»
In obbligo o verità le regole sono veramente poche: bisogna giocare, bisogna scegliere e, soprattutto, è necessario essere in gruppo. Tre semplicissime linee guida che negli anni hanno decretato il successo di un gioco ormai conosciuto in tutto il mondo, e che qui, in questa rivisitazione in salsa horror, diventano l’unico debolissimo perno della vicenda.
Dunque abbiamo un gruppo, e con i suoi sorridenti e stereotipati componenti ha inizio il film. Scherzano, giocano, ci fanno velocemente capire la normalità indisturbata della loro amicizia, suggerendo però con pochi giochi di sguardi, sottolineati da una regia che non lascia spazio alle interpretazioni, le tensioni pronte a risalire sulla superficie di quest’insieme di rapporti patinati. Il sentimento è quello di repulsione, forse dettato dalla prevedibile stupidità del gruppo, o semplicemente per la sua didascalica presentazione, ma, ovviamente, non c’è modo di andare contro all’inevitabile. E così la vicenda ci obbliga a seguirli e, tra una festino e l’altro, veniamo condotti da uno sconosciuto in una misteriosa chiesa.
Qui, proprio mentre inizia il gioco, sembra in qualche modo finire il film. Perché appena il gruppo realizza di non essere al centro di un semplice passatempo, scoprendosi costretto a dire la verità o fare qualcosa, sapendo che rifiutarsi o affermare il falso li porterebbe misteriosamente alla morte, iniziano anche i primi intrecci: le liti, le questioni che come un mantra privo di originalità si andranno a ripetere lungo tutta, ormai consumata, pellicola. Siamo ai primi minuti di film e già questo sembra aver concluso la propria parabola, dimostrando come oltre quelle tre regole, a cui si aggiunge la quarta, non scritta, che riguarda il pericolo di morte in caso di rifiuto del gioco, ci sia veramente poco altro da dire.
L’ordito quindi permette giochi di disvelamento che non sorprendono e che, soprattutto, non spaventano. L’idea di fondo, che ripetiamo essere interessante ma non sufficiente, distrae a tal punto da lasciarci dimenticare l’obiettivo fondamentale di un’opera appartenente a un genere così riconoscibile. La paura, quasi totalmente assente in sala, sembra essere stata barattata per qualche giusto incastro narrativo tra i rapporti consumati dei protagonisti. Qualche jump scares, un paio di momenti splatter e un finale in cerca del sovrannaturale sembra così non bastare, lasciando che l’unica paura sia verso l’ennesima lite per l’amore nascosto tra la protagonista e il ragazzo dell’amica.
Cortocircuito da Déjà-vu
Dove finisca il canone che definisce un genere e inizi il cliché è tra le più quotidiane riflessioni proprie della critica artistica. Per quanto concerne l’ambito audiovisivo, in questo caso propriamente cinematografico, la natura stessa del medium si confonde inoltre per le quasi infinite possibilità di creare rimandi, cucire citazioni e definire un preciso comparto, quasi un’architettura artistica, nel quale abbandonare lo spettatore.
È su di esso che pesa infatti l’arduo compito di scegliere la testa e la coda di questi mostri canonici-citazionisti. In queste particolari opere, che potremmo definire senza troppa fatica furbe, è proprio lo spettatore a dover attuare un lavoro di critica, mettendo sotto pressione quel sentimento di dejavù che sembra divorarlo, e decretando il successo, o il fallimento, di un’opera spesso senza pretese. È un potere figlio di quella memoria emotiva che viene definendosi nella somma delle proprie esperienze visivo-artistiche, la quale, se obbligata a ritornare su stesse sensazioni già provate, può iniziare a surriscaldarsi, portando ad un corto circuito e a una disperata voglia di novità. Ed è questa voglia a muovere le membra, bollenti, di chi si sofferma sull’ultima pellicola della Blumhouse Productions. Casa di produzione molto nota per i propri successi a basso costo e da sempre pronta a rimarcare la propria abilità nel trasformare il budget, in questo caso parliamo di appena 5 milioni di dollari, in una grande libertà artistica.
Senza porre in dubbio la poetica della Blumhouse, certamente positiva in un mondo artistico che confonde spesso quantità con qualità, non ci si può però non chiedere perché, a maggior ragione, non si sia provato ad investire su un’idea, oltre che su uno spunto, su un’estetica, oltre che su una presentabilità, su un carattere, oltre che sulla semplicità.
Investimenti dal basso costo, come piace a loro, risultati dall’alto impatto, come piace a noi.
Senza infamia e senza lode
Il fatto che Obbligo o Verità fatichi nel portare il genere horror oltre le sicure stanze del canone è un problema della pellicola osservata nell’insieme dell’ambiente culturale a cui, in linea teorica, dovrebbe tendere, e in quanto tale può essere largamente ignorato dallo spettatore. Ciò che però esso non può affatto trascurare è come il giudizio, pur non peggiorando, non accenni nemmeno a migliorare nel momento in cui si obbliga lo sguardo a un’analisi strettamente legata alla pellicola nella sua singolarità. È infatti in questo sguardo particolare ed esclusivo che Obbligo o verità, liberato da ogni possibile critica tecnica, come però di potenziali complimenti, si rivela narrativamente insipido. Incapace di approfittare di uno spunto che, per la quotidianità delle situazioni, avrebbe potuto godere di un’immedesimazione quasi totale tra gli spettatori più giovani.
Se It cambiò il modo con cui ognuno di noi guardava a un semplice e innocuo tombino, Obbligo o verità non caricherà allo stesso modo di alcuna ulteriore tensione le indisturbate serate dei giovani giocatori di questo svago ben poco spaventoso.
Lo salvano un comparto tecnico senza problemi e una narrazione che sembra non presentare alcun errore logico. A questo si affianca però una quasi totale assenza di personalità, restituendo un film che, senza infamia e senza lode, ripete se stesso annacquandosi di volta in volta.