Forma artistica contemporanea, ma con rimandi di ancestrale memoria, la performance è un fenomeno difficilmente identificabile e definibile, anche a causa (o grazie) al suo continuo mutare in nuove forme. Tutte le teorie che fanno svoltare la concezione di performance, però, sono teorie che corrono verso un’unica dimensione materiale: il corpo, il quale, soprattutto nel Novecento, ha mostrato un’inedita capacità di rivelare un sapere che deve essere messo all’opera e interrogato.
Gli studi del filosofo Alva Noë, residente per anni presso una compagnia di danza in Germania, la William Forsythe Dance Company, si rivelano presto fondamentali per il mondo della danza e della performance. Questi si concentrano sulla teoria della percezione e della coscienza, che egli identifica come qualcosa esterno a noi, e quindi profondamente connessa alla relazione tra il corpo e l’ambiente circostante. In un moto d’emancipazione potente, dunque, la performance si pone come mezzo di comprensione del mondo e lotta, resistenza, in un atto di rivendicazione di coscienza di fronte a ciò che del mondo non vogliamo accettare o condividere. È un piano che consente di esprimerci, prendere la parola e raccontare la nostra opposizione all’alienazione e alla spettacolarizzazione a cui il Tardo-capitalismo ci ha abituati.
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Soprattutto negli ultimi anni, numerose sono state le performance che hanno segnato la storia dell’arte e del balletto, ponendosi come chiavi di volta, baluardi di una nuova concezione del corpo come strumento coreografico e come mezzo per ribaltare le gerarchie prestabilite.
Danzare a corpo morto
La natura delle cose, di Virgilio Sieni, è un esempio celebre della rivoluzione che la performance, come balletto, ha portato nella sua pratica. Ispirato al poema filosofico-poetico di Lucrezio De rerum natura, il progetto vede la collaborazione nell’elaborazione della drammaturgia del filosofo Giorgio Agamben.
«La scelta del De rerum natura coincide con l’urgenza di rivolgersi alla natura delle cose, alla loro anima e origine, ponendo la danza come strumento di indagine e come manifesto per una riflessione sull’oggi»
Protagonista della performance è Venere che, inerte, viene agita da quattro danzatori. Presentata in tre differenti età, la donna indossa una maschera e si pone come soggetto metamorfico e sempre presente. Una figura ultraterrena il cui movimento si consegna agli altri performer, personificazioni del movimento stesso. Si viene perciò a costruire una presenza in assenza di gravità. La natura delle cose mostra una pluralità di mondi che noi possiamo, performativamente, abitare.
Quella di Venere, del suo corpo, è una vita precaria, affidata, dipendente dalla presenza dell’altro. I quattro danzatori abitano lo spazio e tengono in vita la perfomer, che si pone come carne morta, a dimostrare l’impossibile che si fa possibile mediante la performance. Si mette in atto quindi una riappropriazione in ambito quotidiano e possibile di qualcosa che sentiamo non appartenerci: la morte. L’istinto primordiale a liberare in modo non coercitivo il desiderio diventa quindi centrale e legittimo. Altri esempi celebri di danza a corpo morto sono: Romeo e Giulietta di Kenneth Macmillan, del 1965; Biancaneve di Angelin Prejocaj, del 2008; Danse Macabre di Pedro Pires e Roberto Lepage, del 2009.
Danzare al buio
Condizione fondamentale dello spettacolo dal vivo è la visibilità. L’idea del pubblico al buio, in teatro, nasce con l’avvento dell’elettricità. La condizione della visione viene però, ben presto, revocata dal suo opposto: l’azione al buio. Esempio celebre di questa riflessione è la performance di Cristina Kristal Rizzo e Annamaria Ajmone: IKEA.
«Il titolo evoca, giocando con l’immaginario casalingo più diffuso del mondo, l’idea di auto design del corpo, inteso però come spazio esotico, nel senso di straniero o non conosciuto»
Questa vede le due performer con una maschera sugli occhi, che agiscono a seconda della percezione che hanno dello spazio. Solitamente non si tratta di uno spazio teatrale ma allestito, come gallerie, musei, in modo da essere immerse e confuse tra il pubblico. Rizzo e Ajomine negoziano la propria presenza con lo spettatore e, nel momento in cui si tolgono la maschera, cala il buio, applicando così un rovesciamento. Si ribalta il paradigma di potere performer-spettatore, esattamente come quello luce-buio. Il venir meno della funzione organica della vista, seppur in modo temporaneo, dona a tutte le frontiere dei sensi una risorsa virtuale, potenziale e dinamica. Ciò che rimane è la sensibilità, l’energia femminile che mette in atto una visionarietà capace di raccontare l’intimità di questi corpi e un nuovo modo di osservare il mondo.
Danzare a tempo fermo
La danza e il teatro da sempre riflettono sulla capacità che ha la performance di esprimersi al di là dello spazio temporale, la sua capacità di resistere, di rendersi indipendente dal tempo cronologico convenzionale, di mettere all’opera qualcosa che in realtà non accade. La performance fa dello spazio il suo rovescio, un buco nero dentro al quale è impossibile riconoscere l’evoluzione di qualcosa, ma in cui è visibile una presenza viva e vitale. Mediante la non-azione è possibile esprimere la forza e capacità del corpo di essere qualcosa al di là delle macchinazioni esterne, in tutta la sua normalità. Non ci si pone, dunque, come finalità la conclusione o l’avvento di qualcosa, qualsiasi cosa, perché quando tutto sembra concluso il corpo può ancora.
La compagnia francese 7273 esplora questa possibilità mediante la performance Today. Qui viene presentato un assolo di un corpo che agisce in uno spazio estremamente ristretto. È una performance capace di restituire, con la visione prolungata da parte dello spettatore, una percezione dell’energia enorme che viene emanata nonostante il tempo sia come fermo e in scena non accada sostanzialmente nulla. La performer non colonizza, infatti, altro spazio che quello sufficiente all’appoggio sui piedi, non riconoscendo perciò il circostante come spazio d’azione. Non si fa merce.
Attraverso la performance, il tempo cronologico può essere trasceso in un’accezione di vita e può trovare compimento anche in un tempo fermo, alternativo alla produzione e al profitto. Fermare il tempo è un atto di resistenza contro le forze dell’oblio: la felicità è ciò che resta quando nulla conta più, né un prima né un poi. L’apertura e la chiusura della performance non sono avvio né termine di nulla.
Danzare fuori luogo
La performance rende vivo lo spazio che il performer abita. Il corpo vivo non subisce lo spazio ma esprime, racconta, mette in moto la sua dinamicità. L’azione performativa ha come scopo fare l’architettura dentro i corpi che fanno lo spazio.
Esempio di ciò è la performance site-specific che Hofesh Shechter ha progettato per la Collezione Maramotti di Reggio Emilia e che si è tenuta tra il 3 e il 5 novembre 2015. Lo spazio architettonico industriale, ex sede della casa di moda Max Mara, ha accolto una performance studiata appositamente per quel luogo, in un dialogo costante con le opere d’arte, l’architettura e i corpi dei performer. La condizione spaziale si trasforma qui nei movimenti, in un processo generativo continuo dei gesti a partire dall’ambiente e da ciò che vi è esposto. L’architettura non è contenitore, non è più luogo neutrale, ma è un corpo vivo esattamente come vivo è il corpo che lo abita. La performance, che si presenta come danza, è una sorta di estensione della percezione spaziale in un fuori-luogo e fuori-tempo, capace di raccontare la dimensione fisica dello spazio dentro quale noi andiamo ad osservare e percepire l’arte.
Rebecca Sivieri
Immagine di copertina: Exploring Performance Art Hildesheim 2018 – Photographer Jürgen Fritz
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