A che punto è la notte titolavano Fruttero & Lucentini nel 1979 attingendo da Isaia 21: 11-12, il passo in cui il profeta ritrae, in un’oscurità silenziosa e tiepida, il preludio di una vendetta. Non è il solo caso di prestito semantico adottato in letteratura per ragioni di enfasi o delimitazione contenutistica, laddove l’interdipendenza tra linguaggio dell’immagine e linguaggio vero e proprio consente uno slittamento che procede per assimilazione mediata.
Il fenomeno – ampiamente diffuso anche in ambito filmico in cui è il giornalismo a fungere da diffusore e costruttore d’immagini, assumendo a formula locutiva titoli di opere o battute a effetto – presenta un rilievo emblematico, a dimostrazione della capacità di singoli moduli di adattarsi a una determinata esperienza, sia essa di carattere storico, metaforico, allusivo.
La metafora della notte, con la sua carica allegorica, è in questo senso un esempio chiave essendo un’immagine evocativa, declinabile in rivoli di motivi afferenti all’oscurità, al buio, all’accecamento sensoriale e razionale. Solo alcuni titoli per inquadrare la questione: Viaggio al termine della notte (1932) di Ferdinand Céline; Il buio oltre la siepe di Harper Lee (1960); La notte di Lisbona (1962) di Eric Maria Remarque; La notte (1995) di Elie Wiesental sulla drammatica vicenda dell’internamento in lager.
Oppressione e buio, le due condizioni che più sembrano connotare tempi e condizioni di incertezza si annidano nella pratica discorsiva lambendo, al di là del campo “artistico” cui afferiscono, quella zona dell’immaginario deputata alla costruzione di miti e motivi cui, nel corso degli anni, torniamo a pescare in occasione di urgenza. La metafora della notte ha chiaramente una fortissima ascendenza biblica ed evangelica, come dimostra il riferimento in apertura e – per fare solo un altro esempio – l’epigrafe della Ginestra di Giacomo Leopardi, nella traduzione del poeta: «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce» (Giovanni, III, 19).
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