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Georges Canguilhem

Normale e patologico: la lezione di Georges Canguilhem

dalla newsletter n. 45 - dicembre 2024

7 minuti di lettura

Perché Canguilhem

Parlare di salute — e dunque necessariamente anche di malattia, trattandosi di concetti simbiotici — significa sempre tornare, prima di tutto, al Georges Canguilhem de Il normale e il patologico (1943). Le ragioni sono diverse, ma senza troppi filosofismi o esercizi di salto in alto potremmo semplicemente ammettere che questa riflessione ci ha sempre affascinati perché rigetta pionieristicamente l’idea che possa sussistere un modello di salute, di normalità univoco e permanente. Lo fa ottant’anni or sono, mentre la medicina ed il mondo di ottant’anni dopo si arrovellano tra diagnosi oggettive e dati statistici, associazioni talvolta indebite tra parametri quantitativi e certificazioni di insalubrità; tra pretese di medicalizzazione della vita umana che si affacciano su un altrettanto pericoloso e preoccupante versante, quello del negazionismo biomedico che va a braccio con il complottismo. 

Porre Georges Canguilhem in questo scenario significa concedergli la possibilità di ricordarci, con un monito sempreverde, che il confine tra ciò che è semplicemente diverso e ciò che è realmente patologico — da curare — è labile e sempre essenziale da interrogare. Che guardare all’essere umano come ad una serie di ingranaggi da regolare ed ottimizzare ci fa perdere di vista il valore del corpo vivo e vissuto, la varietà e la complessità dell’esperienza della vita organica. Che ciò che chiamiamo “salute” non è da intendersi come semplice assenza di malattia, ma come un delicato equilibrio ecologico, un processo dinamico in continuo divenire, che fa e disfa, evolve e trasforma. Ma procediamo con ordine. 

Perché “anormale” non è “patologico” 

Per Georges Canguilhem, la confusione tra “anomalia” e “anormale” è frutto di un’insidiosa fallacia etimologica di natura vocabolarista. L’origine di questa confusione, che ha profondamente influenzato la riflessione occidentale sui concetti di salute e di malattia, risiede nell’erroneo accostamento del termine anomalia all’aggettivo anormale che, pur non essendo sinonimi, sono stati progressivamente equiparati dal senso comune. Il termine anomalia si compone, infatti, del prefisso greco “an-” (privo di) e del sostantivo “omalos” (liscio, uguale), evocando inizialmente un concetto di irregolarità o discontinuità, come una superficie accidentata o un terreno sconnesso. Si trattava, in origine, di una categoria descrittiva, indicante una deviazione dalla regolarità, ma non necessariamente un difetto intrinseco o patologico.

La fallacia, però, emerge nel momento in cui il termine “anomalia” viene erroneamente connesso al concetto greco di nomos (legge), derivando un significato di “fuori dalla norma” o “fuori dalla legge”. Tale errore etimologico ha avuto l’effetto di sovrapporre al significato descrittivo di anomalia un’accezione normativa, che implica la deviazione dalla regola stabilita come valore assoluto. Questa confusione ha generato una vera e propria inversione semantica: anormale, un tempo utilizzato in modo descrittivo, diventa ora l’aggettivo che definisce ciò che si discosta dalla norma, mentre anomalia, che originariamente avrebbe dovuto rimanere un concetto neutro e descrittivo, viene ora inteso come una deviazione patologica.

Con il tempo, dunque, l’“anomalia” è stata inglobata nella sfera della normatività, dove ogni deviazione dalla norma è automaticamente assimilata al patologico. Questo errore linguistico e concettuale, come evidenziato da Georges Canguilhem, ha avuto il risultato di fare della differenza una disfunzione, della diversità una malattia, appiattendo la complessità dell’essere umano a un unico, rigido modello di salute.

Cos’è davvero il patologico (spiegato facile)

Nessuna anomalia per Georges Canguilhem è immediatamente patologica. Essa lo è solo quando lede in maniera significativa il rapporto tra individuo e ambiente, quando sottrae, cioè, a questo rapporto la possibilità di potersi ristrutturare sulla base del nuovo assetto imposto dall’anomalia. Solo in questo caso si ha un’identità tra anomalo e patologico, solo in questo caso il patologico è realmente «vacillamento, messa in pericolo dell’esistenza». 

Un discorso a cui fa eco Charles Darwin, quello di una certa falena che ha appassionato (o ammorbato, dipende dai punti di vista) generazioni di studenti sui banchi di scuola. Per gli ex studenti più negligenti: nel cuore dell’Inghilterra industriale, i tronchi anneriti dalla fuliggine cambiarono il destino della Biston betularia, una falena notturna. Originariamente chiara e ben mimetizzata sui licheni, divenne una facile preda quando i tronchi si scurirono. In pochi decenni, le rare varianti nere presero il sopravvento, offrendo una prova lampante della selezione naturale: l’ambiente sceglie chi sopravvive. Più attuale, forse, è il caso dell’ormai celeberrima e certamente invisa intolleranza al lattosio, presente diecimila anni fa nella maggior parte degli esseri umani dopo lo svezzamento. Tuttavia, in alcune popolazioni che praticavano l’allevamento di animali per il latte, una mutazione — un’anomalia? — che consentiva la digestione del lattosio in età adulta è diventata prevalente. Tale variazione ha permesso a quelle popolazioni di sfruttare una risorsa alimentare importante, favorendo la sopravvivenza e la diffusione del tratto.

Il patologico dunque, in questa prospettiva, non coincide con la mera assenza di una norma biologica, ma con una norma altra rispetto agli standard fisiologici e respinta per comparazione dalla vita.  Volendo proporre un esempio è impossibile non pensare immediatamente a quella patologizzazione della neuro-divergenza figlia di una certa medicina speculativa o sbrigativa. Una patologizzazione che dimentica che la neuro-divergenza può assumere una connotazione patologica solo quando le sue manifestazioni compromettono significativamente il funzionamento adattivo e l’autonomia nella vita quotidiana. Negli altri casi si tratta semplicemente di un modo di verso di esistere e di intrecciarsi con il mondo, che amplifica la profondità e la complessità dell’esperienza umana, arricchendone l’essenza e la varietà. Un modo che sovente non capiamo o non ci sforziamo di capire, accontentandoci di un concetto di normalità che non sempre ci sforziamo mai di mettere in discussione. Cos’è normale, chi lo decide? Si tratta di una categoria neutra o socialmente, politicamente, culturalmente determinata? 

In ogni caso è proprio il patologico, per Georges Canguilhem, a rappresentare la cifra costitutiva stessa della condizione umana, ben più della normalità. Che cos’è la vita umana d’altronde se non un itinerario che procede facendo continuamente i conti con la possibilità dell’errore, della malattia, e quindi del dolore? Un aspetto, quest’’ultimo, colto limpidamente da Salvatore Natoli nel suo asserire che «la maschera dolorosa, nella sua oggettività, coinvolge tutti in un vissuto di memoria e di attese comuni» e che «in ogni sofferenza si ritualizza sempre una storia del dolore che pesa sugli uomini come inconfutabile violenza, ma anche come ineliminabile eredità».

La lezione di anatomia

La riflessione di Georges Canguilhem ha il merito di spostare il baricentro del discorso sul versante del soggetto che soffre; reintroduce cioè la soggettività del paziente laddove l’oggettivazione medico-anatomica della corporeità l’aveva invece estromessa. 

A questo proposito è interessante rilevare, con l’antropologo Giovanni Pizza, come il rischio della riduzione della pratica clinica al fantasma di una biologia applicata nasca già in seno al processo di formazione dei giovani medici. Tale formazione prevede difatti il modellamento dello sguardo clinico a partire dalla manipolazione del corpo morto, del corpo cadavere, durante le lezioni di anatomia.

Riecheggia in queste parole un certo Michel Foucault, che nella sua operazione di genealogia storica dell’attività biomedica sottolinea come  «la nascita della clinica come istituzione autonoma fondata sull’osservazione medica [si collochi proprio] al momento della nascita dell’anatomia patologica». Come rileva Giovanni Pizza, la lezione di anatomia non è finalizzata unicamente alla funzione didattico-empirica di conoscenza delle parti corporee, delle sue componenti anatomiche, «ma si qualifica soprattutto come una modalità di trasformazione della persona, in quanto gli studenti devono superare lo shock emotivo determinato dall’esperienza di una drammatica reificazione del corpo: il corpo umano diventa una “cosa”. La dissezione del cadavere si configura come un’oggettivazione del corpo, che viene nettamente separato dalla persona».

È come se l’orientamento anatomico-clinico che caratterizza la conformazione della didattica medica pregiudicasse, e non trascurabilmente, la possibilità di vedere nella malattia non una malfunzione da «decriptare nella carne del corpo altro del malato» ma, al contrario, un evento che interessa e lede lo spettro delle possibilità di una corporeità vissuta. Il corpo viene simbolicamente “reinventato”, ricostruito dalla medicina stessa che abbandona l’idea del corpo come luogo deputato all’esperienza e lo assume come oggetto inerte da esplorare. L’oggettivazione del corpo in ambito disciplinare produce così una totale ristrutturazione del concetto di “persona”, in riferimento e al cadavere, e allo stesso studente.

A questo punto, forse, diviene legittimo chiedersi in che misura la metamorfosi, il rovesciamento di prospettiva da un’ontologia del corpo vivo ad un’ontologia del corpo morto si riverberi sulla concezione stessa di umanità, di uomo, di vita, morte, persona sottostante alla sfera tanto discorsiva quanto propriamente istituzionale della biomedicina.

Oltre la medicina

Alla luce di queste note abbozzate a margine della riflessione di Georges Canguilhem possiamo concludere che il portato della stessa — che riecheggia ancora a distanza di decenni — risiede nel ricordarci che l’idea di normalità è un orizzonte mobile, e che solo leggerla in questa veste può liberarci da un’idea meccanica e limitante di ciò che è salubre, conforme, regolare; da un’idea di salute come mera assenza di malattia, quando essa richiama piuttosto ad un delicato equilibrio ecologico, ad un processo trasformativo costante. Ricordare che un’anomalia non è necessariamente segno di patologia e che può semplicemente rimandare ad una delle infinite manifestazioni della vita umana che si adatta, si evolve, si trasforma, ci consente di abbracciare una visione più profonda e sfaccettata dell’essere umano che riconosca la molteplicità delle esperienze e la bellezza dell’adattamento individuale. Di ogni modo proprio di stare al mondo. 

Come accogliamo il diverso, il “deviante”, il fragile, racconta non solo chi siamo, ma chi possiamo ancora diventare.  Stiamo ancora, dunque, parlando solo di medicina? 

Illustrazione di Lucia Amaddeo

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Sara Campisi

Classe 1996. La mia vita è un pendolo che oscilla tra la Filosofia e la perdita di diottrie.

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