Quando non ammantata di torme di asiatici a caccia di fotografie, la Nike di Samotracia è un pugno nello stomaco che toglie il fiato o tira fuori le lacrime. Conservata al Louvre di Parigi, la Nike domina la scalinata che conduce dagli stanzoni della scultura alle gallerie dei pittori francesi e italiani. Il marmo, di circa due metri e mezzo, fu trasportato al Louvre nella seconda metà dell’800, dopo aver riposato per secoli nel santuario dei Grandi Dei di Samotracia, isola greca che per celebrare la vittoria nella battaglia dell’Eurimedonte (siamo nel 190 a.C.) fece costruire l’imponente statua alata. “Nike”, infatti, è “vittoria” in greco, e la Nike di Samotracia altro non è che la personificazione della Vittoria, protesa in avanti mentre dispiega le ali che sembra quasi stiano per alzarsi in volo.
Per un simpatico gioco del destino, che ama prendere in giro chi ci crede, la Nike è monca della testa: il marmo si ferma all’altezza delle spalle e lascia che sia l’immaginazione a continuarne il profilo. Ma proprio qui accade qualcosa di paradossale, all’apparenza. Ammirandola dal basso della scalinata, il bisogno di dare un volto alla Nike non si fa sentire, anzi, è inesistente. Accade ciò che piaceva ad Arthur Schopenhauer, quando si fermava, forse con qualche lacrima, a contemplare i capolavori artistici: l’eterna fame di fare qualcosa, di agire, di tenersi occupati, la volontà, cessa di imporre il proprio dettame, e lascia posto alla bellezza. La «ruota di Issione» va perdendo il suo motore, e altro non si può fare che aprir la bocca e sospirare, sospirare di leggerezza.
Ma è ancora riduttivo pensare che sia solo un gioco di volontà, tra lo spegnersi e l’attizzarsi, quello che rende la Nike qualcosa di unico; si tratta piuttosto dell’inspiegabile aura di impersonalità che emana dalla sua figura. La Nike di Samotracia non è qualcosa o qualcuno, è e basta. Ed è basta perché qualsiasi altra definizione ne ridurrebbe la grandiosità, come la grandiosità della verità, della bellezza, della bontà, non hanno nulla di personale, ma trascendono ogni concretizzazione. Così pensava Simone Weil, che chiamava sacro tutto ciò che non è personale; e sacro, in particolare, è quel briciolo di forza che risiede in ogni uomo, e ogni uomo spinge a fare il bene piuttosto che il male.
Forse, dunque, non è una coincidenza che il marmo, il meraviglioso marmo che raffigura la Vittoria sia privo del capo: il volto non è richiesto da ciò che è impersonale e che, lungi dal celebrare una vittoria, glorifica la Vittoria. E la Vittoria non è di qualcosa o qualcuno, ma con Simone Weil, la Vittoria è dell’uomo quando fa il bene e non il male. Alla Nike di Samotracia si guardi quindi con occhio filosofico, contemplando il monumento alla vittoria dell’uomo, che vince quando è degno di esser chiamato tale.
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L’ho veduta a diciassette anni (era l’anno 1981) e l’ho vista da sotto la scalinata.
Esattamente come hai detto, ancora adesso la ricordo.